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Il Sublime Simposio Del Potere

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Channel-fireball, dardi incantati da 1d6+1 e onde energetiche (della tartaruga).

Alcune riflessioni sulla transmedialità nel genere fantasy

di Vanni Santoni

dite, amici, ed entrate

dite, amici, ed entrate

[intro redazionale

Sotto il nome di Sublime Simposio Del Potere andava la mailing list che ha usato Vanni Santoni per convocare un manipolo di prescelti a parlare di fantasy il 17 gennaio 2015 a Firenze, nella bellissima libreria TodoModo. La discussione è stata ampia e interessante: per questo ho chiesto a tutti i partecipanti di provare a trascrivere il loro intervento.

I tempi sono stati epici, conformemente al tema trattato, ma gli eroi hanno vinto le loro battaglie, e siamo pronti adesso a presentarvi, ogni martedì, una diversa visione del mondo del fantasy, con l’auspicio che questo genere minore susciti ancora fiamme di passione e, soprattutto, un buon dibattito.

aye!]

Quando mi è stato chiesto di organizzare il “Sublime Simposio del Potere” – al netto della boutade ruolistica del titolo una giornata di studi sulla letteratura fantastica – avevo preparato un piccolo intervento, che poi, vista la quantità e qualità di quelli degli altri intervenuti, ho poi deciso di omettere, limitandomi a coordinare l’incontro.

La giornata era nata come alternativa a una presentazione dei due Terra ignota: lo avevo già presentato molte volte a Firenze, così con i librai della TodoModo avevamo pensato che sarebbe stato più interessante, e proficuo, aprire al fantasy in generale, partendo dall’esperienza di questi romanzi – dalla loro genesi, dal lavoro teorico alla base sia della struttura che del metatesto, dalle riflessioni intorno a ciò che significa, oggi, scrivere un fantasy in italiano, dall’ottima ricezione che stavano avendo, ricezione che veniva a dimostrare che un pubblico “colto” per questo genere esisteva, un pubblico del tutto trasversale che, pur fruendo abitualmente di contenuti cosiddetti “alti” aveva interamente superato certi vetusti pregiudizi nei confronti del “genere” e della narrativa popolare, in generale, e del fantasy in particolare.

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Se tale pregiudizio era stato superato – da questo sarebbe partito il mio intervento, che qui cerco di ricostruire per sommi capi – era, più che per l’esistenza e persistenza di un canone della letteratura fantasy, per via della penetrazione a tutto campo del genere nell’immaginario di tutti, attraverso medium per lo più differenti dal libro. Io stesso, se a un certo punto della mia vita di scrittore avevo deciso di scrivere anche del fantasy, non era perché coltivavo chissà che passione per tale genere in letteratura – amavo Tolkien, come tutti, ma non mi spingevo molto più in là – ma perché avevo passato infiniti pomeriggi a giocare a giochi di ruolo fantasy come Dungeons&Dragons; a videogiochi fantasy come Ultima V, VI, VII; a coin-op fantasy come King of Dragons; a giochi di carte fantasy come Magic: The gathering; a leggere fumetti fantasy come Il mercenario di Segrelles, prima, e Berserk di Miura, poi; a guardare e guardare quei pochi film fantasy disponibili in epoca pre-digitale, adorando i capolavori Conan il barbaro di Milius e Excalibur di Boorman, ma anche apprezzando tutta quella onesta “seconda fascia” – Ladyhawke, Willow, La storia fantastica, Labyrinth, Highlander – che era pur sempre ciò che il convento passava; senza contare poi le grandi epiche giapponesi a cartoni animati, nessuna fantasy tout-court ma spesso afferenti al genere – Ken il guerriero, I cavalieri dello zodiaco, il primo Dragon ball… – e fumetti che sfioravano il fantasy e intanto andavano costruendo dal nulla il cosiddetto “urban fantasy”, come l’insuperato Sandman di Gaiman.

Il fantasy è infatti senz’altro il genere più transmediale, e mi riferisco a qualcosa che va ben oltre il fatto che oggi Harry Potter, Il signore degli anelli o Il trono di spade sono veri e propri franchise che vanno dai libri ai film, dai videogiochi ai pupazzi, dai giochi di ruolo ai wargame al più variegato merchandising – il fatto è che il “canone fantasy”, se una tal cosa esiste, si organizza oggi intorno a una varieta di prodotti culturali, alcuni dei quali hanno impattato e definito l’estetica e le forme del fantasy come e più della letteratura. Ho citato i giochi, i fumetti, il cinema, i cartoni animati, i videogame, ma si può andare ancora oltre, mettere in campo addirittura l’illustrazione (qualcosa di analogo, ma forse anche su scala maggiore, a quello che è accaduto con il lavoro di Giger per Alien, poi saccheggiato in ogni dove, dagli zerg di Starcraft a Warhammer 40’000 a Mutant Chronicles).

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Si pensi a Frank Frazetta: padre di Conan e con esso dell’estetica epic fantasy come e più di Howard, ha definito un certo modo di guardare ai personaggi e agli scenari in cui si muovono: prima di lui, i vecchi romanzi di Conan il barbaro avevano in copertina un curioso ometto in mutande e mantello, non ipertrofico, con capelli corti e tratti  anglosassoni regolari, più parente di Flash Gordon che del cimmero che siamo abituati a conoscere. E così i grandi illustratori della TSR, Larry Elmore su tutti, i cui disegni sulle scatole di D&D guardavamo e riguardavamo. Né si tratta solo di una questione estetica. Se pensiamo, oggi, a un mago che lancia uno “spell”, è al mago di D&D che stiamo pensando; se pensiamo a uno scontro tra due guerrieri, lo immaginiamo con il livello di dettaglio e la coreografia che il cinema occidentale ha importato dall’oriente… Di fronte a tutto questo, il romanzo, con la versatilità e inclusività che si è guadagnato in epoca postmoderna, può tornare a essere punto di arrivo, più che di partenza, per simili ordini di suggestioni nell’ambito del genere fantasy, a patto di accettare di essere sì il medium più ampio, ma non necessariamente quello più rilevante.



Il Sublime Simposio del Potere

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Ciao, mi chiamo Francesco e ho letto libri fantasy dai nove ai quindici anni.

di Francesco D’Isa

dite, amici, ed entrate

dite, amici, ed entrate

[intro redazionale

Sotto il nome di Sublime Simposio Del Potere andava la mailing list che ha usato Vanni Santoni per convocare un manipolo di prescelti a parlare di fantasy il 17 gennaio 2015 a Firenze, nella bellissima libreria TodoModo. La discussione è stata ampia e interessante: per questo ho chiesto a tutti i partecipanti di provare a trascrivere il loro intervento.

I tempi sono stati epici, conformemente al tema trattato, ma gli eroi hanno vinto le loro battaglie, e siamo pronti adesso a presentarvi, ogni martedì, una diversa visione del mondo del fantasy, con l’auspicio che questo genere minore susciti ancora fiamme di passione e, soprattutto, un buon dibattito.

aye!]

Ciao, mi chiamo Francesco e ho letto libri fantasy dai nove ai quindici anni. Ho iniziato con i “librigame”, per la precisione con le serie di “Lupo Solitario” e “Alla corte di re Artù”. Nonostante lo stile di scrittura non proprio eccelso (nel caso di Lupo Solitario è un tragico eufemismo), la mia immedesimazione nei testi era tale da considerarne le storie non dico al pari della realtà, ma addirittura superiori; erano, per così dire, la mia “realtà preferita”. Non è poi troppo strano, perché da bambini i confini del mondo sono labili, le identità sfumate e gli oggetti annodati in matasse multiformi;  solo età, esperienza, educazione e dolore fanno sì che il campo si restringa, in una miniaturizzazione del mondo che a volte è dannosa e altre volte solo apparente.

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In breve tempo ho completato tutti i librigame in commercio (tranne quelli rosa, erano per le bambine) e sono rimasto senza nulla da leggere. Così, nella libreria dove mi rifornivo abitualmente, sono passato allo scaffale adiacente: i libri fantasy. Ho acquistato Il Signore degli Anelli (avevo dieci anni) e dopo qualche giorno sono partito in vacanza al mare, dove ai giochi da spiaggia ho preferito costantemente la lettura del libro, che ho finito dopo un mese. È uno dei miei ricordi più belli; il romanzo di Tolkien aveva oscurato qualunque altro stimolo e si può ben dire che lo abitavo con tutto me stesso. Da questa descrizione sembra che io sia stato un bambino difficile e solitario, ma in effetti ero soltanto difficile: la mia passione era tale che avevo convinto tutti i miei amici a giocare al Signore degli Anelli, traslocando di fatto la mia vacanza dal mare in un altro mondo.

Di lì a cinque anni ho letto tutto quel che la sezione “fantasy” aveva da offrire; per la stragrande maggioranza erano libri mediocri, ma c’era anche qualche ottimo testo, sebbene mai al livello del Signore degli Anelli. In ogni caso, a meno che non fossero davvero illeggibili, la mia immedesimazione era totale e anche se il mondo “reale” mi pressava sempre di più (era arrivata l’adolescenza), il desiderio di fuggirlo non era da meno (l’adolescenza, appunto). In pochi anni lo scaffale era quasi vuoto e le incursioni nella fantascienza non mi consolavano. Era rimasto soltanto un libro fantasy, me lo ero tenuto per ultimo perché mi piaceva la copertina. E a questo punto ho deciso una cosa strana: una volta letto quel libro mi sarei trasferito “nel mondo fantasy”; dopo l’ultima pagina, bum! Mi sarei teletrasportato nel “mondo migliore”. Non ha funzionato. Ci sono rimasto male, mi sono guardato allo specchio, ho pensato «sei ancora qua», infine mi sono arreso all’evidenza e dedicato ad altro, per lo più a sopravvivere alla summenzionata adolescenza. Non ho smesso di leggere, ma sono passato ai libri “seri”, con una predilezione – che ho tutt’ora – per la letteratura “fantastica”, che può voler dire Kafka come Nabokov. Va aggiunto, citando proprio quest’ultimo, che «… la finzione è sempre finzione. L’arte è sempre inganno. Il mondo di […] tutti i grandi scrittori è un mondo fantastico con una propria logica, proprie convenzioni e proprie coincidenze. […] La realtà è sempre relativa, perché ogni realtà data, la finestra che vedete, gli odori che percepite, i suoni che udite, dipende non soltanto dal rozzo compromesso dei sensi, ma anche da differenti livelli d’informazione.».

Ogni realtà, appunto, è finzione, ma le finzioni non sono tutte uguali. Se vado alla ricerca della caratteristica principale della “finzione del fantasy” infatti, posso ipotizzare che si basi sulla creazione del “migliore dei mondi possibili” cui ero tanto affezionato. Come nelle fiabe e nei miti – ma a differenza di altra letteratura – nella narrazione fantasy accade sempre quel che è meglio che accada; la vita scorre esattamente come deve scorrere, con tragedie, grandezze, eroismi, vigliaccherie, miserie, incontri, meraviglie… è pur vero che anche “qui” è così, e il “lieto fine”, sebbene più frequente, non è assicurato neanche nel mondo fantasy. Eppure qualcosa in più c’è: “laggiù” i simboli sono una realtà letterale. Uno scontro, ad esempio, non è come una guerra, è proprio una guerra; un amore non è come un incantesimo, è davvero un incantesimo, e così via. Non solo; a differenza del mito e della fiaba, che danno una realtà concreta ai simboli (potrei anzi dire che li generano), il fantasy utilizza un gioco di sponda atto a rendere l’illusione più credibile. Se da una parte sostituisce alla vita i suoi stessi simboli, applica anche a questi ultimi le medesime regole della realtà abituale, rende insomma “i simboli più realistici”. Si potrebbe dire, con una metafora certo imprecisa, che il fantasy sta al mito come un quadro rinascimentale sta a un quadro medievale: in entrambi i casi si utilizzano dei nuovi trucchi per generare una rinnovata illusione di “realismo”.

illustrazione originale di Francesco D'Isa

illustrazione originale di Francesco D’Isa

Un esperimento psicologico di cui non ricordo la fonte dimostra come dei pesci, posti davanti a un pesce finto ma realistico e a uno in cui i caratteri della “pescità” sono semplificati e simbolici, interagiscono preferibilmente con quest’ultimo; da cui si deduce che anche i pesci, sebbene non siano in grado di crearli, anelano ai “mondi migliori”. Cosa si intende per “migliori” poi, è un nuovo problema: più semplici, più chiari, più estremi, più belli, più rilassanti, più soddisfacenti, abitabili, simmetrici, contenibili, prevedibili, rassicuranti, comprensibili, ideali… ci sono troppe possibilità per analizzarle o anche solo menzionarle in questa sede.

Nonostante non legga fantasy dal 1996, comunque, non mi sento un lettore o un uomo diverso. Immagino che questa tendenza ai “mondi migliori” resti la medesima anche quando prende altre strade, quando, per così dire, si rivaluta l’inferno, perché, come scrive Guénon, «il paradiso è ancora solo una prigione».


Il Sublime Simposio Del Potere

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Nelle mani di Samvise Gamgee: del ritorno, e delle lacrime

di Vincenzo Marasco

dite, amici, ed entrate

dite, amici, ed entrate

[intro redazionale

Sotto il nome di Sublime Simposio Del Potere andava la mailing list che ha usato Vanni Santoni per convocare un manipolo di prescelti a parlare di fantasy il 17 gennaio 2015 a Firenze, nella bellissima libreria TodoModo. La discussione è stata ampia e interessante: per questo ho chiesto a tutti i partecipanti di provare a trascrivere il loro intervento.

I tempi sono stati epici, conformemente al tema trattato, ma gli eroi hanno vinto le loro battaglie, e siamo pronti adesso a presentarvi, ogni martedì, una diversa visione del mondo del fantasy, con l’auspicio che questo genere minore susciti ancora fiamme di passione e, soprattutto, un buon dibattito.

aye!]

Sarai Sindaco, finché vorrai,
e il più famoso giardiniere della storia.

Giunge infine un’età in cui il rispetto per i propri momenti di passione impone di non evitare, di prendersi cura, dei propri moti interiori e rispondere agli interrogativi che essi pongono. Oggi, il mio è questo: come mai piango ogni dannata volta, quando leggo il Signore degli Anelli? L’intervento è quindi organizzato attorno a questo personalissima domanda, alla ricerca di una spiegazione (o almeno un quadro coerente) della melanconia che mi assale con inconsueta costanza. Non in tutto il libro, bensì solo nella parte finale, in quel lentissimo svolgimento, messo in scena da Tolkien, dell’eucatastrofe, per dirla con una sua invenzione, che comincia una volta che l’Avventura vera e propria è finita.

Joseph Campbell riteneva che tutte le Storie dell’Eroe potessero essere ricondotte ad un unico motivo, quello del viaggio di rigenerazione, la ricostruzione narrativa di un rito di passaggio necessario a rimettere in circolo le energie del mondo in nuove conformazioni.

In pratica, ogni Eroe: interviene ogni volta in cui l’ordine vive una deficienza simbolica, non “assolve più le sue funzioni” ovvero è minacciato da forze che non gestisce; affronta un viaggio in cui egli viene trasfigurato ed entra in un qualche contatto con lo Straordinario; grazie a questo viaggio egli può affrontare la minaccia; e può così, non ristabilire l’ordine, bensì instaurarne uno nuovo. In questo viaggio di rigenerazione/rito di passaggio, la narrazione segue una serie di forme classiche, e il Signore degli Anelli fornisce una buona dose di questi topoi del racconto epico-eroico e di loro rivisitazioni. C’è un ordine minacciato da eventi di un livello più grande, c’è un Eroe coinvolto nella storia suo malgrado, c’è la Decisione di Affrontare la Prova, l’Aiuto Sovrannaturale, le Prime Prove, più piccole, che preparano alla Prova, quella finale, e l’incontro con l’Ombra, e via e via…  Nella complessa struttura del Signore degli Anelli il rito di passaggio non riguarda solo l’Eroe Frodo, si realizza per tutti i personaggi, ognuno conforme alla suo modello eroico e alle sue possibilità; allo stesso tempo, il grande passaggio riguarda  tutta la Terra di Mezzo, nel racconto degli ultimi anni dell’attuale Terza Era del mondo.

Questo sguardo sul libro come Viaggio dell’Eroe facilita una prima domanda: perché esiste una parte finale? Perché cioè il libro non coincide con l’happy ending al Campo di Cormallen? Come si sa, una volta distrutto l’Anello e festeggiata la riunione della Compagnia, l’opera di Tolkien ci offre circa altre 100 pagine, che cominciano con il rivelatore innamoramento di Eowin e Faramir, ci presentano l’incoronazione, il matrimonio, la gioia tra i compagni, l’onore dei caduti e i rapporti del nuovo ordine della Era ventura; raccontano poi l’ultima battaglia della Contea; ma soprattutto raccontano di addii, di Molte separazioni, per ultima quella proprio di Frodo, ai Porti Grigi assieme ai portatori dell’Anello. Non ho affatto le capacità per offrire una lettura dettagliata o interessante di queste pagine dell’Opera, quindi per limitarmi agli obiettivi che mi sono posto ripongo la domanda in maniera più consona: perché il Ritorno dell’Eroe deve essere parte integrante della Storia?

Per vari motivi. Perché la sua storia non è ancora finita: essa esige che l’Eroe inizi la fatica di riportare indietro, nel punto di partenza, le verità che ha imparato. Ma l’Eroe non è passato indenne da questa storia. Rinato come Eroe nel periodo straordinario, esso ha dato inizio un nuovo ordine, ma questo non gli appartiene: egli ha vissuto l’incontro con l’Oltre, con le forze sovrannaturali, e non può più stare con il mondo ordinario: con la parole di Campbell, come tradurre in parole umane la sfida delle tenebre?

Le cose tornano ad un nuovo posto, e non per tutti questo è confortevole. Con accettata rassegnazione seguiamo questa prima linea di evoluzione, in cui l’eroe non ha più posto, cominciamo a comprendere che per Frodo non c’è sistemazione, che da lui ci separeremo. «Non esiste un vero ritorno. Anche tornato nella Contea, essa non mi parrà più la stessa, perché io sono cambiato. Dove troverò riposo?».

Poiché la storia non finisce, essa piuttosto si rinnova in una Quarta Era, i cui contorni fanno a pieno titolo parte della vicenda. Il tema eroico si articolava attorno all’abbandono del potere che reggeva l’attuale ordine del mondo, e  col successo della missione dell’Eroe, finisce il mondo come ci era stato presentato. E con la fine dei tempi turbolenti, con l’instaurazione del nuovo ordine, finiscono le gesta eroiche, ogni presenza sovrannaturale abbandona questa terra. Comincia l’era degli uomini. Ciò che finisce è l’Epica.

È al lento stillicidio di tutti i personaggi che ci hanno accompagnato, delle immagini grandiose e potenti, di quelle forze che hanno agitato le fondamenta stesse della terra ciò a cui, lentamente, assistiamo in queste pagine. È il congedo, gioioso, malinconico, domestico, da questo mondo che va in scena nelle ultime parole di Celeborn e Galadriel o nella cerimonia funebre di Theoden. È del vecchio mondo della vicenda Eroica, il mondo dei grandi stravolgimenti, delle possibilità aperte, della lotta, eccetera. Perché si possa mettere un punto alla storia, c’è bisogno di dare un doloroso addio a tutti quei Grandi Personaggi che hanno tessuto la vicenda, tra cui anche l’Eroe, che ha compiuto il passaggio da un ordine all’altro ma non appartiene a nessuno dei due. C’è bisogno che il nuovo mondo ordinario sia impiantato e visibile, adesso abbordabile: così tutta la parte sulla Contea, dove la lotta non è affatto epica, ma triviale, senza pathos, ma colma malinconia. Quasi una questione amministrativa, di fronte agli avvenimenti del Monte Fato. Di tutto questo grande passaggio, nessun discorso ci è risparmiato, e ogni gioia, ogni traguardo dichiarato, ogni promessa di felicità ci procura gioia e dolore, così sospesa tra abbandono e lieto fine, al tramontare di quest’Era sulla Terra di Mezzo.

Ogni lettura ci costringe, alla fine, a prendere congedo dai suoi personaggi, e per questo ogni bel libro è anche un po’ triste. Ma in queste pagine, per quanto mi riguarda, accade qualcosa di più. Tolkien organizza, con pazienza quasi crudele, una ultima mossa (o almeno così la percepisco io, nel tentativo di rendere ragione dei sentimenti): perché la storia non finisce mai, cerca sempre nuovi narratori. In queste pagine si realizza un passaggio di testimone dall’Eroe a quello che è il vero protagonista del libro, cioè colui che rimane “vivo” anche dopo lo sconvolgimento interiore del libro, colui che sopravvive alle vicende e, compiuto il rito di passaggio, può tornare alla realtà, cresciuto, adulto, “finito”: Samvise Gamgee. Può tornare a casa, nella vita reale, con Rosie Cotton ed Eleanor la bella, nel nuovo Ordine ristabilito. «Sono tornato», dice, e con lui il lettore che alza lo sguardo e chiude il libro. Colui col quale il lettore è chiamato ad immedesimarsi, colui che il lettore è. Allo stesso modo stiamo noi che, dopo aver vissuto sempre ad un passo di distanza tutte le vicende eroiche, dopo aver assaporato quegli stravolgimenti emotivi e quei gesti di mille coraggi eroici, possiamo tornare – rinnovati – nel nuovo mondo ordinato. Adesso è tutto nelle nostre mani: «Io ho finito tutto, Sam. Le ultime pagine sono per te».

Questo è per me il colpo di grazia: la trasformazione di noi stessi in Samvise, anzi la scoperta che siamo sempre stati lui, che abbiamo letto la vicenda dell’Eroe con timore eppure con risolutezza, amanti del nostro mondo ma desiderosi di dare il nostro contributo contro le tenebre, e che siamo noi a dover, con la stessa forza, accettare la nostra parte, e il destino che ci aspetta: «Leggerai brani del libro rosso, mantenendo vivo il ricordo dei giorni passati, affinché la gente ricordi il Grande Pericolo e ami ancora di più il suo caro paese. Tutto ciò ti renderà occupato e felice finché durerà la tua parte nella storia». Questo lento abbandono del mondo in bilico, del mondo in lotta, del mondo percorso e conturbato da forze Straordinarie, in sostanza l’abbandono del mondo delle forze vitali (è questo mondo dalle forze in movimento una lettura del migliore dei mondi possibili di cui parla D’Isa?), il dramma di accettare il ritorno in un mondo che – benché gioioso proprio perché noi ce ne prenderemo cura, come Sam con la sua scatola di semi – invecchia, ci riporta alla nostra individualità, consegnato alla rielaborazione del suo fondamento nella memoria, da conservare responsabilmente e con gioia hobbit per le generazioni future, è il sapore agrodolce dell’eucatastrofe.

Noi compendieremo, ci emozioneremo, racconteremo, ricameremo sopra, doteremo di glosse, il grande racconto della lotta tra bene e male che ha forgiato questa era del mondo, in attesa che essa si ripresenti. Allo stesso tempo assistiamo straziati al lutto, all’addio, al ricambio di tutte le forze che ci hanno fatti così come siamo. Attenderemo così, se tutto andrà bene, sicuri, non divisi, capaci di accettare che il nostro è solo un piccolo posto nella storia. Ma tristi;  nonostante il rito di passaggio, il dono degli Dei ai Secondinati rimane faticoso da digerire. L’Eroe ha quindi questo ultimo compito, il passaggio del testimone. Al lettore, finita la storia, rimane il compito di risignificare questo lutto. I più moralisti potrebbero dire che un Uomo non dovrebbe commuoversi leggendo Storie. Altri, più saggi, ci diranno: «Non dirò “non piangete”, perché non tutte le lacrime sono un male».


Il Sublime Simposio Del Potere

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Il Corvo presenta: il giorno in cui il Nano Sabbiolino divenne epica

di Francesca Matteoni

dite, amici, ed entrate

dite, amici, ed entrate

[intro redazionale

Sotto il nome di Sublime Simposio Del Potere andava la mailing list che ha usato Vanni Santoni per convocare un manipolo di prescelti a parlare di fantasy il 17 gennaio 2015 a Firenze, nella bellissima libreria TodoModo. La discussione è stata ampia e interessante: per questo ho chiesto a tutti i partecipanti di provare a trascrivere il loro intervento.

I tempi sono stati epici, conformemente al tema trattato, ma gli eroi hanno vinto le loro battaglie, e siamo pronti adesso a presentarvi, ogni martedì, una diversa visione del mondo del fantasy, con l’auspicio che questo genere minore susciti ancora fiamme di passione e, soprattutto, un buon dibattito.

aye!]

Sabbie eterne

“Fumetto dark”, riportavano le edizioni italiane dei primi albi del Sandman che acquistai, come se questo dovesse attrarre chissà quale torma di fumettari con borchie, anfibi e cappotti neri. Molto più efficaci erano invece le copertine di Dave McKean, collage sfumati di disegni e fotografie, maschere rovinate, in procinto di trasformarsi dentro resti di rami, foglie, strane ossature animali. Preconizzavano il regno in cui si sarebbe di lì a poco addentrato il lettore: la terra del sonno e del sogno, con il suo Signore, dispensatore di polvere incantata. Dunque c’erano stati il minaccioso uomo della sabbia di E.T.A Hoffman; il mirabolante Olé Chiudilocchio anderseniano e soprattutto da un misconosciuto libro di fiabe della buonanotte il Nano Sabbiolino in calzamaglia a righe e berretto, con ciuco e carro pieno di sacchi di sabbia per incubi o sogni dorati, a vegliare sui miei viaggi onirici. Ma è quest’ultima evoluzione del Signore dei Sogni, creato dallo scrittore Neil Gaiman, che ha segnato e accompagnato il mio immaginario notturno dai venti anni in poi.

Romantico – alto, molto magro, vestito di buio: Sogno porta al collo un rubino, dove custodisce parte della sua essenza, ha per elmo una maschera a gas, ereditata da un altro Sandman della DC Comics e un sacchetto di sabbia incantata. Il suo aspetto è tuttavia variabile, come lui stesso afferma, quando Marco Polo gli chiede se sia sempre così pallido: “Dipende da chi mi sta guardando (“Terre Soffici” in Favole e Riflessi”)” – quale popolo, quale immaginazione.

Vorrei qui provare a parlare di tre aspetti salienti dell’avventura rocambolesca di lettrice del Sandman: il rapporto tra il sogno e i sognatori; l’interazione con altre creature soprannaturali; la ridefinizione del tempo, il tutto contestualizzato in una vaga trama così riassumibile: Oneiros, Morfeo, Signore delle Forme, Plasmatore, è il terzo fratello nella famiglia degli Eterni, entità che esistono oltre le vicissitudini dei mortali e degli dei e incarnano le caratteristiche essenziali del vivente. Ovvero: Destino, Morte, Sogno, Distruzione, Disperazione e Desiderio, Delirio (Delizia).[1] Tornato al sogno dopo quasi un secolo di prigionia ad opera di un mago che voleva catturare Morte, ritrovandosi invece per le mani il fratello minore, intraprende il suo vero viaggio dell’esperienza o dell’eroe: attraverso diverse epoche e incontri Morfeo fa ammenda degli errori commessi, diventa sensibile alle vicende dell’animo umano, mette ordine nel regno, che è il regno di tutto il sognato e il sognabile e quindi è la storia di tutte le storie. Da uno stato di coercizione passa al potere che si muta in atto espiatorio e trasformazione di sé e si consegna all’epica. Dunque chiudiamo gli occhi: cominciamo.

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Compagni di sogni

Il viaggio mitico o fiabesco che sia è sempre un viaggio di rinascita, acquisizione di un’identità che renda all’eroe il suo ruolo nella società o, come in questo caso, nell’universo. Ma se questa peregrinazione si svolge nelle terre del sogno le cose si complicano – divino e umano si mescolano e i significati si fanno evanescenti. Perché sappiamo che non tutto ha un senso nel sogno o almeno non è un senso manifesto. A volte semplicemente nei sogni prendono voce le cose rimosse – una strada marginale, un pensiero nato da svegli e mai portato a termine.

Così nel regno onirico incontriamo luoghi stranianti e familiari che a loro modo completano o smantellano l’altra vita della veglia. C’è una biblioteca dove Lucien, il bibliotecario, cataloga e conosce a memoria tutti i libri scritti in sogno; c’è una Casa del Mistero e una Casa dei Segreti,[2] dove dimorano i biblici Caino e Abele uniti da pulsioni contrastanti, quali l’affetto fraterno e l’atto fratricida; vi sono terre che emergono dalla volontà di chi sogna, ma che in tutto metamorfici possono diventare a loro volta corpi e individui, che intraprendono il percorso inverso, andando fuori dal sogno verso il quotidiano degli umani. È il caso del Paradiso dei Marinai, posto ameno e confortevole, che prende le sembianze di Gilbert, un uomo di mezza età, grassoccio e gioviale, in giro per il mondo. A quest’ultimo, interrogato da Morfeo riguardo la sua fuga dal Regno, è affidata una verità sul legame tra il sogno e gli umani:

«Me ne sono andato perché ero curioso. E perché ero stanco. La vita umana possiede una sostanza che non avevo mai nemmeno sognato nel Sogno, Signore. Le piccole vittorie, le insignificanti sconfitte. Avevo le mie ragioni (Casa di Bambola)».

Il Sogno è un luogo imperfetto, non vi si può sostare troppo a lungo, non abbiamo abbastanza tempo o spazio per conoscere i significati delle sue visioni, possiamo tutt’al più trarne presagi e bizzarri amuleti. Ma questo dipende in larga misura dal fatto che sono le imperfezioni e le volubilità dei mortali a fare dei sogni ciò che sono. La natura di Morfeo non può che essere inquieta: nemmeno quando mostra indifferenza c’è un vero distacco dall’umano, perché ciò che lui dona, che plasma dalle sabbie, è intriso della precarietà del vivente. La natura dei sognatori è varia – sognano gli umani, gli animali (tra cui spiccano i gatti, ma anche le tartarughe), le divinità, spesso decadute, costrette all’incognito e a una condizione di perpetua nostalgia per un’età dell’oro vaga quanto irripetibile. Si addormentano tutti e la forza della visione è pari al sentimento di imminente risveglio, di ritorno a un io che è quasi un estraneo con la sua vita emersa, esposta alla società, quasi un residuo pallido di quanto esperito in sogno.

Nel panorama densissimo di individui, culture, vicende personali spiccano le figure femminili, che sembrano capaci più di altri di influenzare il Signore dei Sogni. Che siano amanti o amiche o perfino antagoniste, sono loro che destabilizzano il Sogno, ma al tempo stesso lo ricreano con il loro proprio mistero. Perché potere e immaginazione risiedono in chiunque sia in grado di sognare, abitando altrove, credendo intensamente a quella materia ambigua e stupefacente. Un breve elenco di questi personaggi potrebbe così comporsi: una ragazza che cade addormentata nei momenti più imprevisti, scatenando vortici devastanti nel mondo onirico e che è l’ignara nipoti di Desiderio, il più bello e infido degli Eterni; un gruppo di vicine d’appartamento alle prese con riti lunari e sanguinosi per camminare nel sogno verso qualcosa di letale che nell’infanzia vi si è fatto crescere; una strega dei tempi antichi, ultima della sua stirpe; una serie di divinità, demoni, creature ultramondane che sono sia frequentatrici del sogno che guardiane, dispensatrici della sorte, dei suoi capricci come della sua oscura giustizia, cui nemmeno Sogno può sottrarsi.

Fate e Parche

Un legame particolare è quello che Sogno ha con il Regno delle Fate, governato da Titania e dal suo sposo Oberon, come Shakespeare insegna. È proprio in un contesto shakespeariano che incontriamo la stirpe fatata per la prima volta. Alter ego umano di Sogno, il bardo inglese ottiene il dono del talento in cambio di due opere da dedicare rispettivamente alle fate (Sogno di una notte di mezza estate) e a Morfeo (La tempesta). Dono che è anche una maledizione: la condanna di Prospero, capace di far nascere mondi e tuttavia relegato dal suo stesso genio alla solitudine dello spirito. Tuttavia le creature raccontate da Shakespeare quali esseri umorali e dispettosi, riacquistano nel Sandman il loro portato folklorico di inquietudine, passionalità e incontrollabilità, a partire da Puck, folletto feroce e senza traccia di coscienza, capace di prendere gusto a qualsiasi misfatto al di là delle suo conseguenze.

Per loro natura le fate sono le più vicine a quel particolare ibrido di arcaica nostalgia, humour nero, presagio che domina tutto il sogno. Dalla Terra del Crepuscolo, della luce obliqua che crea miraggi e languore, all’infinito Castello del Sogno, tanto imprevedibile e vasto eppure racchiuso in un pugno di sabbia, il passo è breve. In entrambi i luoghi il viaggiatore è costantemente avvertito di non lasciare il Sentiero: un passo via dal tracciato e si diventa preda dei terribili scherzi dei folletti come dei mostri sepolti nella propria coscienza.

«Noi del Reame Fatato siamo di magia selvaggia. Non siamo creature di incantesimi e grimori. Noi siamo incantesimi e siamo scritti nei grimori», afferma Cluracan ambasciatore di Titania (La locanda alla fine dei mondi). Indomabili ed effimeri, sfuggenti a logiche umane o divine, fate e sogni ingarbugliano le vie, domandano soprattutto di aver fede nell’incontrollabile e di dubitare sempre dell’apparenza: nessun essere fatato si mostra per quello che è – la corte di Titania è bella e leggiadra, ma tolto il glamour è un popolo malinconico, smagrito, con la pelle verde, occhi sfuggenti e sproporzionate orecchie a punta. Ugualmente dei sogni ci rimane l’impressione di aver viaggiato in luoghi familiari e meravigliosi, che “qualcuno” dentro noi – una forma del nostro passato, un io fittizio -, conosce nel profondo, ma ci resta anche il sapore amaro di ciò che è irripetibile e illusorio.

Fate, fatato, fatale, Fato: il gioco allitterativo ci conduce dritto dritto alla triade femminile per eccellenza: trama, ordito e forbice delle vite. Ora strampalate sorelle dedite al rito del tè pomeridiano con biscotti della fortuna o topi crudi, a seconda dei gusti, ora invisibili e temibili vendicatrici di torti familiari, incontriamo Lachesi, Cloto, Atropo del mito greto nel lungo capitolo finale della saga, Le Eumenidi (ovvero le benevole, eufemismo che nasconde la furia), dove mettono in atto la fine di Sogno. Rappresentano un aspetto attivo e quotidiano, di ciò che sono Destino e Morte. In fondo alle scale di uno scantinato, dentro lo sgabuzzino delle scope, si rivelano dimostrando che l’imprevisto, il comunemente improbabile, il soprannaturale si agitano ovunque nel mondo della veglia, ma soprattutto in quei luoghi desolati cari a Swedenborg e a Yeats, siano essi naturali, urbani o domestici – colline, vicoli, angoli della casa. Hanno la consistenza di ombre resistenti e imperscrutabili. Leggiamo questo dialogo tra Atropo e Lachesi riguardo il destino:

Non è mai come lo vogliono, e se noi diamo loro ciò che credevano di volere restano ancora più insoddisfatti. ‘Non credevo sarebbe venuto così’, ‘Lo volevo come quello che avevo prima’… Non so perché ce ne preoccupiamo.

Ce ne preoccupiamo perché non abbiamo scelta. Perché è quello che siamo, sotto queste spoglie.

Quale altro sembiante in quale altra realtà parallela, possano assumere non ci è detto: l’intuizione e gli infiniti ribaltamenti del vero sono le uniche tracce che queste entità così umane e così aliene ci lasciano. Del resto chiunque intraprenda la lettura del Sandman dovrà accantonare l’idea di una trama definita in chiari antagonisti, aiutanti magici, riuscita finale; dovrà invece accettare che alcuni dei “fatti” restino un’eco misteriosa, epifanica per alcuni e del tutto irrelata per altri; che sogno, sognatore e sognato – ovvero i tre elementi chiave delle avventure – sono insieme luogo e tempo, sviluppo immaginario e vicenda concreta. Chi tiene un quaderno dei sogni sa che questi pezzi di mosaici diversi, il cui soggetto sfugge all’immediato riconoscimento, acquisiscono forza medianica una volta raccolti, formano un unico grande enigma da decifrare – e il tempo per farlo sarà tutta una vita. O, rovesciando la clessidra, tutta una morte da compiersi.

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Il tempo di una vita

Eccoci all’ultima chiave, non risolutiva, del Sogno: il tempo, il confronto della morte con l’eterno, tra la memoria, quale residuo e sorgente, e la capacità di escogitare nuovi modi di stare al mondo.

Gli Eterni sono tutti manifestazioni del tempo, inteso come la dimensione più intima delle esperienze e non come il loro trascorrere: Delirio che fu Delizia è la frattura, talvolta insanabile, tra le illusioni della prima giovinezza, sia di un singolo che dell’intero genere umano, e il saccheggio del divenire parte della società, dell’evolversi al conforme, all’accettabile; Disperazione e Desiderio sono le due forze che sprofondano nell’ossessione, nel tempo irrespirabile di chi vaga solo in se stesso, straniero al più vasto cronotopo di cui siamo solo un frammento. Ma certo Desiderio è anche l’incanto dell’occhio, la fragilità del cuore, l’azzardo che smuove i destini. Distruzione esplica la ciclicità delle epoche, il crollare dell’una nell’altra e ha, malgrado il nome, il piglio dell’ottimista, di chi è in grado di guardare le cose da fuori senza sentirsi sempre il primo attore. Destino, il più opposto a Desiderio, è l’ineludibilità dei fenomeni fisici, che si scrivono nel suo libro e dentro i suoi occhi ciechi; Sogno è la sapienza segreta che non vi è un solo tempo. Che perfino i vivi e i morti non sono separati, come non lo sono gli spettri dai corpi, le fantasie dai calcoli, le notti dai giorni. E poi c’è Morte che è semplicemente se stessa. A lei viene spesso dato il compito di consolatrice di Morfeo, quale saggia e gentile darkettona che giunge in un battito d’ali a consegnare le esistenze al loro ultimo significato.

Accanto agli Eterni c’è un’etica tutta particolare, intrinseca al tempo, che Morfeo imparerà a sostituire alla legge statica di responsabilità verso il suo regno: il cambiamento e ciò che comporta. Cambiare è guardare da un’altra prospettiva la sostanza in cui siamo immersi, sospesa tra un morire, che prima o poi arriverà, e un nascere di cui siamo già dimentichi. Nel Sandman cambiare o comporta una riformulazione del concetto di mortalità. Gaiman la illustra nel volume Vite brevi, e vite brevi sono tutte le esistenze al di là della loro durata, anche se si tratta a volte di individui che ricordano le tigri dai denti a sciabola, o di pochissimi altri che erano vivi prima che la terra acquisisse il suo stato solido. Perché non muoiono come gli altri? E perché la brevità quale beffarda, paradossale qualificazione? Ognuno, spiega Morte, ha esattamente il tempo che deve avere: una vita intera. E per quanto sembri lunga il congedo è sempre una strana sorpresa.

Due esistenze lunghissime, delle quali una sarà infine interrotta, si configurano quali poli opposti del lungo apprendistato di Sogno, del suo progressivo umanizzarsi, farsi compassionevole oltre che immaginifico. Il primo è un comune mortale, Hob Gadling, che Sogno e Morte conoscono nel 1389 in una taverna londinese. Lo ascoltano mentre spiega che morire è solo un’abitudine e come ogni abitudine può essere dismessa. Sogno, divertito, chiede a Morte di assecondarlo: Hob morirà solo quando lo vorrà. Da allora, ogni cento anni Sogno e Hob, Bob o Robert che sia, si danno appuntamento in quello stesso luogo. L’uomo attraversa fasi alterne, dal successo e la ricchezza alla povertà e la rovina eppure ad ogni incontro la sua voglia di vivere non viene meno. È forse questo inesauribile entusiasmo che gli permette di vedere a fondo nell’anima di Morfeo: quando questi si ripresenta nel 1889 Gadling lo scopre, dicendogli che non è affatto la curiosità per le sue avventure a portarlo lì, ma il bisogno di un amico. Sogno è cambiato. Le tribolazioni umane non gli sono più indifferenti, la solitudine necessaria del suo ruolo si è incrinata come uno specchio che non dà più una sola immagine, ma una miriade di riflessi, spezzati e storti che una volta erano l’uno e ora sono molte ferite, strane possibilità di sviluppo o smarrimento. Qualcuno dirà che lo specchio si è rotto. Altri che la sua luce si moltiplica all’infinito. Permette di vedere attraverso la consapevolezza del proprio punto fragile l’esistenza dell’altro.

La seconda vita breve tocca Morfeo da vicino: si tratta del figlio, nient’altro che l’oracolo Orfeo, la cui testa, viva è quanto resta dello smembramento effettuato dalla Furie nell’epoca del mito. Per orgoglio e ira, ferito dall’ostinazione del figlio a voler inseguire l’ombra di Euridice nell’Ade, Morfeo gli aveva negato la morte: ora torna nell’isola greca dove la testa è custodita, per compiere un gesto di pietà. I secoli trascorsi hanno mutato l’anima del Sogno, e il sangue di Orfeo gli cola dalle braccia trasformandosi in semplici e indolori fiori rossi che cadono a terra. Compassione e insieme delitto familiare, è questo a scatenare le Eumenidi e a far morire il Sogno, nella forma in cui lo conosciamo. La vita non è la sua lunghezza, ma ciò che ne facciamo, la volontà che impieghiamo per apprezzare la trama delle Parche. Per questo l’eternità è un dono per Gadling, un martirio per Orfeo. Mentre Sogno accetta di finire, si consegna a un nuovo, più docile Signore dei Sogni, albino e vestito di bianco laddove il nostro eroe era scuro e notturno. Un sé diverso, se non migliore. Dopo aver sognato l’universo ed esserlo stato si può sparire in qualcosa d’altro, liberi da colpe o doveri: sognarsi, forse, senza pensiero dentro la fine.

Dalla locanda

Ho scoperto e letto il Sandman durante uno dei periodi più difficili della mia vita a conclusione della mia adolescenza. Mentre in fumetteria acquistavo prima i fumetti singoli, poi i volumi, i miei cari e miei coetanei si uccidevano o morivano in incidenti; i miei amori erano tristi, contrastati, dannati, ma senza alcun romanticismo; osservavo l’abiezione, l’abbrutimento delle tossicodipendenze, la paura o vigliaccheria della maggioranza in cui forse pure io ero inclusa; esperivo lo stigma di una strana diversità che pure rivendicavo con orgoglio. Poi ho accettato che bisogna accogliere i cambiamenti, perfino quelli brutali, se non si vuole tradire se stessi. In tutto questo, viaggiando per l’Europa, rifugiandomi nella soffitta della mia vecchia casa, le storie del Sandman sono state davvero una luce di speranza. Nonostante tutto avevo ancora i sogni. Nei sogni niente era mai perduto.

Le cose non devono essere avvenute realmente per essere vere. Le storie e i sogni sono verità rivestite d’ombra che sopravvivranno quando i nudi fatti saranno polvere, cenere, oblio (“Sogno di una notte di mezza estate” in Le terre del sogno).

Quindi compongo queste sabbie mobili di parole dalla locanda alla fine dei mondi. È qui che creature provenienti da ere e reami diversi arrivano per caso, colti da strani fenomeni meteorologici, come quella volta che ci fu un’anomala tempesta di neve, conseguenza dei funerali del Sogno. Mentre scrivo, nelle altre stanze vegliano e raccontano storie. Sono storie banali, esagerate, dolorose, felici, zuccherose, comiche, sboccate, enigmatiche. Ad ogni racconto gli ospiti si avvicinano l’uno all’altro, toccano la pura magia delle cose quando smettiamo di guardarle per vederle. Quando ci fermiamo e ascoltiamo tutti i mondi avverabili dentro di noi. Diveniamo il Sogno. Che è solo l’altra strada nel bosco, l’altra faccia del Reale – quello splendere segreto prima che si levi il vento a soffiarci la sabbia via dall’occhio.


[1] Nell’originale inglese la parentela viene esplicata dalla prima lettera dei loro nomi, la “D” del divino e del demoniaco: Destiny, Death, Dream, Destruction i gemelli Despair e Desire, Delirium che fu Delice.

[2] Che ritroviamo in The Dreaming, altra serie a fumetti nata da una costola del Sandman.


Il Sublime Simposio Del Potere

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Perché voglio ancora essere una strega

di Silvia Costantino

dite, amici, ed entrate

dite, amici, ed entrate

[intro redazionale

Sotto il nome di Sublime Simposio Del Potere andava la mailing list che ha usato Vanni Santoni per convocare un manipolo di prescelti a parlare di fantasy il 17 gennaio 2015 a Firenze, nella bellissima libreria TodoModo. La discussione è stata ampia e interessante: per questo ho chiesto a tutti i partecipanti di provare a trascrivere il loro intervento.

I tempi sono stati epici, conformemente al tema trattato, ma gli eroi hanno vinto le loro battaglie, e siamo pronti adesso a presentarvi, ogni martedì, una diversa visione del mondo del fantasy, con l’auspicio che questo genere minore susciti ancora fiamme di passione e, soprattutto, un buon dibattito.

aye!]

Prima c’erano Maga Magò, la Strega Nocciola e Amelia la Strega che ammalia. Erano simpatiche. Cattive, forse, ma simpatiche. Preparavano pozioni, volavano, usavano cose dai nomi strani come “assa fetida”, che era effettivamente un’asse di legno marcita. Poi sono arrivate Puzzy, la strega sudiciona e un terrificante libello di incantesimi grazie al quale ho fatto nevicare in Puglia, un giorno di natale di moltissimi anni fa (subito dopo ho occultato con un foglio bianco una certa pagina, nel terrore di TRASFORMARE IN ROSPO per sempre qualche familiare).

Le streghe Disney sono le rappresentazioni più vicine alla comune accezione della strega. Per quanto caricaturali e macchiettistiche, ne rispecchiano la definizione storica, quella che viene direttamente da Salem e dai Sabba come ce li raccontavano i padri pellegrini: donne tendenzialmente maligne che praticavano la magia, le arti oscure – ovvero la capacità di modificare la realtà attraverso incantesimi di tipo verbale o fattuale (pozioni magiche, talismani). Un tipo di magia che, tuttavia, come la pratica dell’occultismo, non è necessariamente legata alla donna: strega e stregone sono teoricamente la stessa figura. Stregone è sinonimo di mago, e più o meno di alchimista – una figura che studia su libri antichissimi e possiede una vastissima conoscenza del mondo (Merlino è mago ed è stregone, per dire il più famoso, e non si può dimenticare Ged e il Ciclo di Earthsea). Ma la strega non è uguale alla maga. Nell’immaginario condiviso da tutti noi, non lo è, anche se i confini, quando c’è la magia coinvolta, sono sempre molto labili.

E soprattutto, la strega non è uguale allo stregone. Perché la leggenda delle streghe non è quella di erudite studiose*: possono avere il proprio grimorio, ma questo somiglia più a un diario, a un taccuino, a un libro privato e personale, reso magico proprio dall’appartenenza. E nelle rappresentazioni più comuni e più antiche non c’era nemmeno quello: il regno della strega è quello dell’istinto. Tagliando con l’accetta i numerosi passaggi che servirebbero per arrivare al fulcro del discorso: essere strega significa vivere in una dimensione del tutto istintuale, governata non dall’erudizione ma dalla fantasia, e i gesti magici della strega derivano principalmente dai moti del corpo, dalle pulsioni e dalle reazioni fisiche. Le stesse Circe, Medea o Alcina compiono magie perché mosse prima di tutto dai propri desideri, soprattutto sessuali. E dunque: è strega colei che ha una forte istintualità, che è conscia del proprio corpo e dei propri desideri, che è capace di usare entrambi a proprio beneficio. Quando si è iniziato a parlare di streghe nel modo che tutti conosciamo, eravamo in un periodo in cui la donna, per il fatto di essere donna, era un problema.

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Poi sono arrivate le femministe a riappropriarsi del mito della strega trasformando tutti gli aspetti negativi in segni più: la libertà sessuale, l’autodeterminazione, il libero pensiero… tutte cose bellissime e interessantissime cui io non sarei mai arrivata se in biblioteca non avessi trovato libri come Strega come me di Giusi Quarenghi, o Streghetta mia di Bianca Pitzorno, o Matilda (indubitabilmente una strega, a far da contraltare a quelle, cattivissime e pericolosissime, dell’omonimo libro).

Ma i racconti per l’infanzia sono ancora ingenui: possono attirare con la fascinazione per la magia e raccontare episodi buffi con eroine decisamente interessanti, però non esprimono, per forza di cose, tutto il potenziale dell’immaginario della strega.

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esempi a caso, dagli scaffali della mia libreria

Il quale esplode – letteralmente – in quella che ora è la narrativa Young Adults: credo di aver divorato quintali di pagine con queste streghe in cui la scoperta dei poteri coincide esattamente con quella tremenda linea di confine che è l’adolescenza. Il libro che mi ha avvicinata a un mondo in cui il corpo e i simboli erano più importanti della formula magica è stato La figlia della luna di Margaret Mahy, dove una quattordicenne Laura Chant (lei scherza sul fatto che si chiama Chant di cognome ed è stonata, e chant è anche l’incantesimo) si fa strega per salvare il fratellino, e il rituale di passaggio è un mondo onirico che passa attraverso il sangue e la propria interiorità. In qualche modo, ogni magia del libro è un atto legato all’individualità, alla crescita.

Bianca Pitzorno, intanto, aveva pubblicato un libro meraviglioso, purtroppo poco noto, dal titolo La strega di Vallebuja. È il primo approccio “non magico” alla vicenda delle streghe, una narrazione secca, così lontana dallo stile solito della Pitzorno, che raccoglie e racconta gli atti di un processo sommario a una giovane donna, in Italia.

Il marchio del diavolo, la prova dell’acqua, il latte che avvizzisce, il sangue mestruale dotato di oscuri poteri. All’epoca, ed ero ancora alle medie, iniziai a capire quanto questo tipo di magie, la magia delle streghe, fosse uno stigma femminile (per quanto in La figlia della luna sia presente una strega maschio). Perché solo le donne hanno il ciclo, e il ciclo è legato alle fasi della luna, e la luna è il simbolo più magico che esista al mondo – la luna, l’acqua, la gravidanza, le varie fasi. Ancora non sapevo niente, ma i legami oscuri tra la donna e la terra, intesa come Gea e come il terreno, o meglio ancora come l’amata Proserpina, iniziavano a farsi chiari. Marion Zimmer Bradley rese tutto più chiaro e più vivo.

Intorno ai 15 anni mi sono imbattuta nell’imprescindibile: Le nebbie di Avalon, secondo ma più importante volume del Ciclo di Avalon di Marion Zimmer Bradley. Per me, già affascinata dalle antiche fiabe celtiche e dai cicli bretoni e carolingi, un titolo del genere, con una copertina del genere, con una protagonista del genere, non poteva che essere IL libro. Il romanzone-kolossal di Marion Zimmer Bradley, con tutti i suoi cliché da romance/fantasy, ha il merito di narrare la magia delle streghe come qualcosa di potentemente legato alla terra, e al corpo, al sangue, al sesso. Di renderlo un rito carnale in cui la donna è padrona di sé stessa. Non ricordo bene tutto – anche se di recente ho visto il tremendo film derivato – ma ho ben presente la sensazione dei flussi di potere che scorrono dentro il corpo delle officianti durante i riti di Samhaine. Forse definire le sacerdotesse di Avalon ‘streghe’ è un po’ azzardato, perché si va a toccare un ambito che appartiene al mistico più che al magico (così forse Galadriel), e però è difficile non associare quelle particolari magie, quei rituali, ai sabba in cui le streghe si accoppiavano con il demonio.

Dopo la Zimmer Bradley è stata una strada in discesa: in modo del tutto acritico e onnivoro ho letto tutto ciò che contenesse streghe e magia e eroine femminili. Il fantasy è entrato nella mia vita principalmente grazie alle streghe – ho anche iniziato a giocare (molto male) di ruolo live, impersonando un’elfa maga (piacere, Eilinn Ithilien). E quando cresci sapendo che a fianco a te, o forse in te, c’è una Serafina Pekkala pronta a sussurrarti il vento tra le orecchie, cresci bene, e niente ti spaventa.

Purtroppo all’epoca non esisteva ancora American Horror Story: Coven, perché si sarebbe inscritto perfettamente nella mia cosmogonia. Ne hanno parlato molto bene o molto male, io sono tra chi la ritiene la stagione migliore di tutta la serie. Già, perché poi c’erano i film o i musical – da Pomi d’ottone e manici di scopa a Wicked al più wiccan-oriented Giovani Streghe, passando per Suspiria. E può sembrare assurdo, ma nella mia frenesia streghesca non ho mai visto una puntata per intero delle due Grandi Pietre Miliari della serialità in Italia – vale a dire Streghe e Buffy L’Ammazzavampiri. Sabrina vita da strega lo adoravo, invece, ma le tre sorelle magiche mi venivano a noia dopo pochissimo, e Buffy… insomma, io ero innamorata di Lestat e della decadenza di New Orleans, figuriamoci se mi facevo deviare. Preferivo le magie più innocenti degli anime, che però erano perlopiù di deriva extraterrestre – a parte Ransie e Bia (oh, Bia!).

Se poi si va a guardare Miyazaki il discorso cambia, ma non è Miyazaki che è fondamentale citare qui. È invece necessario parlare di Kanashimi no Belladonna, un lungometraggio della fine degli anni ’70, quando lo sperimentalismo sul campo delle animazioni toccava picchi di eccellenza forse ancora mai ripetuti. Ispirato direttamente da La strega di Michelet, “I dolori di Belladonna” è la storia di una giovane contadina in un non precisato regno medievale, che viene deflorata dal re prepotente alla prima notte di nozze, e umiliata si rinchiude in una caverna, e lì, complice un daimon a forma di piccolo cazzetto, si scopre regina della terra e dell’ultraterreno, e torna fuori godendo la vita e il suo potere, e cerca poi vendetta ma trova solo maggiore isolamento, e sofferenza. Tutta la vicenda è raccontata con un complesso mosaico di acquerelli e tratti tipici di manga degli anni settanta/ottanta, con Klimt che spunta in ogni dove, ed è una storia così caotica, così espressionista, che riesce perfettamente a descrivere i tumulti interiori della protagonista. Che si chiama Jeanne, e finisce sul rogo.

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L’ultimo libro che cito è un romanzo di Jo Walton (vincitore del Nebula e dell’Hugo award – e per cui Ursula K. Le Guin in persona ha speso ottime parole), in inglese Among Others, tradotto in italiano con Un altro mondo. È buffo che il titolo inglese riecheggi così tanto un libro che recentemente ho accostato alla magia, e scritto da una donna, e pieno di tutti questi simboli e rituali di cui sto parlando adesso, ma noi sappiamo che le coincidenze non esistono.

La trama di Among Others è canonica e sfuggente allo stesso tempo, e ci sono costanti deviazioni e riprese. Ma non si può parlare di questo libro senza raccontarne la trama – però cito alcuni elementi fondamentali: una gemella perduta, fate brutte e decisamente amorali, moltissimi romanzi science fiction, la ricerca di una karass. Come dice bene l’autrice di questa splendida recensione, Mori è una ragazzina normale, i suoi poteri sono poteri terreni – il potere di riconoscere le cose, di avvertire i cambiamenti nella trama del mondo solo leggendo i segni (trama, leggere, segni – non credo di dover alludere oltre all’epicentro della narrazione. Ho già detto che tutto si racconta in forma di grimorio diario?), ma soprattutto Morwenna non vuole far parte degli “altri”: lei vede un mondo ultraterreno ma sa che, per quanto nel suo si possa sentire isolata e diversa (e grazie ai libri, sempre meno), è il mondo della vita ad appartenerle, il mondo delle cose e delle contingenze.

Quando si chiude un libro così si guarda al mondo con occhi diversi. E se sappiamo tutti che all magic comes with a price (ce lo dicono, ce lo ridicono, continueranno a ripeterlo), non possiamo fare a meno di concludere che, anche senza grandiosi atti di magia o dardi infuocati scagliati contro i draghi, è inquietante ma bello pensare che basta muovere una mano, o dire una parola, perché la trama del mondo venga modificata, inesorabilmente.


* almeno fino a che non è arrivata Hermione Granger, autentica maga prima ancora che strega, a ristabilire il diritto allo studio anche per le ragazzine.


Il Sublime Simposio Del Potere

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La bevanda amara della morte

di Edoardo Rialti

dite, amici, ed entrate

dite, amici, ed entrate

[intro redazionale

Sotto il nome di Sublime Simposio Del Potere andava la mailing list che ha usato Vanni Santoni per convocare un manipolo di prescelti a parlare di fantasy il 17 gennaio 2015 a Firenze, nella bellissima libreria TodoModo. La discussione è stata ampia e interessante: per questo ho chiesto a tutti i partecipanti di provare a trascrivere il loro intervento.

I tempi sono stati epici, conformemente al tema trattato, ma gli eroi hanno vinto le loro battaglie, e siamo pronti adesso a presentarvi, ogni martedì, una diversa visione del mondo del fantasy, con l’auspicio che questo genere minore susciti ancora fiamme di passione e, soprattutto, un buon dibattito.

aye!]

Mi ricordo le volte/ che bevevamo idromele e che promettemmo/ al nostro sovrano che, nella sala della birra/ ci regalava questi anelli, che l’avremmo ripagato…accorriamo da lui, sosteniamo il nostro/comandante in battaglia, nonostante il bruciore. È così che un giovane guerriero esorta i compagni a non abbandonare il loro signore, che sta per affrontare un drago parecchio incazzato per un furto al suo tesoro. E a raccontarlo è il Beowulf, nel VII-VIII secolo dopo Cristo. È in fondo la stessa mentalità che chiude il celebre frammento epico-storico della “Battaglia di Maldon”: «L’animo deve essere più risoluto, il coraggio maggiore, quanto minore si fa la nostra forza». Ed entrambi questi slanci, quest’ultima corsa verso la morte, che pure si sa inevitabile, a loro volta riecheggiano l’antico sentimento del Ragnarok nordico – cui da poco A. Byatt ha dedicato uno splendido romanzo ambientato nella Seconda Guerra Mondiale – «quando le radici di Yggdrassill saranno scosse, e niente sarà lasciato senza paura in cielo e in terra», l’ultimo scontro che uomini e Dei opporranno alle forze del caos e dell’oscurità, uccidendo e venendo uccisi¹.

RAGNAROK

È un lascito che si è fatto largo nei secoli, tanto che, seppure il padre del fantasy contemporaneo, J. R. R. Tolkien, lo abbia inserito e corretto in un suo più ampio “eroismo della dedizione e dell’amore”, quel balzo eroico verso la «bevanda amara della morte» – sono parole sue, proprio sul Beowulf – puntella comunque tutte le avventure di Bilbo, e Frodo:

Improvvisamente ci fu un grido fortissimo, e dalla Porta venne uno squillo di tromba. Avevano tutti dimenticato Thorin! Parte del muro, scalzato da leve, crollò e cadde nella pozza. Il Re sotto la Montana balzò fuori, e i suoi compagni lo seguirono. Cappuccio e mantello erano spariti; erano tutti rivestiti di abbaglianti armature, e dai loro occhi divampava una luce rossa. Nella penombra il grande nano brillava come oro in un fuoco morente. Dall’alto, gli orchi fecero rotolare su di loro dei macigni, ma essi resistettero, superarono le cascate, e si precipitarono a dar battaglia. Lupi e cavalieri caddero o fuggirono davanti a loro. Thorin assestava con la sua ascia colpi possenti, e sembrava invulnerabile. “A me! A me! Elfi e Uomini! A me! o miei consanguinei” egli gridò, e la sua voce squillava come un corno nella vallata. Tutti i nani di Dáin si precipitarono in suo aiuto, senza badare allo schieramento.

È parte non indifferente dell’incanto della narrazione tolkieniana, come ha notato Wu Ming 4: «Dobbiamo individuare un dovere, un viaggio da compiere, una battaglia da combattere… perché è ciò che dà senso alla nostra esistenza, che ci aiuta a scoprire noi stessi, a metterci alla prova, e ci impedisce di diventare l’ombra dei nostri padri e madri». Ed è significativo che anche il grande amico di Tolkien, il C. S. Lewis di Narnia, al momento di raccontare nella sua trilogia fanta-teologica la lotta feroce tra Ransom e Satana, «la Morte Vivente, l’Eterno Irrazionale della matematica universale», faccia proprio intonare al proprio protagonista, lacero e insanguinato, la battaglia di Maldon. E persino nel suo ultimo libro sulla preghiera Lewis ebbe l’ardire di annotare:

Ho creduto in Dio prima di credere nel paradiso. E persino adesso, perfino se – supponendo l’impossibile – la Sua voce mi dicesse indubbiamente ‘Ti hanno ingannato. Non posso fare niente del genere per te. La mia lunga battaglia con le forze cieche è alla fine. Muoio, figlioli. La storia sta finendo’ sarebbe quello il momento per mutare casacca? Forse che io e te non faremmo come i vichinghi: i giganti e i troll vincono, moriamo dalla parte del giusto, assieme al Padre Odino?

THORIN

Certo, è diverso raccontare di eroismo e magari nobile disperazione dopo il Vietnam, dopo l’Iraq, quando sembra «che non ci sia più ideale per cui sacrificarsi, noi che non sappiamo cosa sia la verità» (A. Malraux), ma non è così. Nel crollo di vecchie certezze, e forse proprio in virtù del terremoto del cinismo che si scrolla di dosso tanta retorica, tanti schemi, qualcosa resta sempre in piedi, ed è ancora quell’antica corsa. Il sentimento del Ragnarok continua a scorrere nelle vene del fantasy epico. Magari sulle gambe malferme di un nano manipolatore e lussurioso, com’è il Tyrion di G. R. R. Martin, vero e proprio perno e salto quantico della sua narrazione, quanto Bilbo e Frodo furono per Tolkien:

“Mezzo uomo” ringhiò. “Questo dite di me. se io sono un mezzo uomo, voi cosa siete?” Questo doveva aver infangato abbastanza il loro onore…In breve, il gruppo di Tyrion raddoppiò di numero. “Non mi sentirete urlare il nome di Joffrey” disse loro. “E nemmeno inneggiare a Castel Granito. Quella che Stannis Baratheon intende saccheggiare è la vostra città. e quella che sta cercando di sfondare è una delle vostre porte. Per cui, venite con me, andiamo ad ammazzare quel figlio di puttana!” Tyrion impugnò l’ascia da guerra, fece voltare il cavallo e partì verso la porta del corpo di guardia; pensava che gli altri lo seguissero, ma non si voltò a guardare.

Pare quasi una riscrittura alla Ellroy della scena di Thorin. Oppure pensiamo al prometeico Lord Asriel di Queste oscure materie di P. Pullman, che balza e chiama disperato l’amata-odiata moglie, la bellissima, crudele e tormentata Signora Coulter, ad affrontare insieme il tiranno celeste, l’angelo che da millenni si spaccia per Dio, e che controlla tutte le chiese di tutti i mondi:

“Marisa! Marisa!” Il grido era uscito dalle labbra di Lord Asriel, e la madre di Lyra,con il leopardo delle nevi accanto, con un rombo nelle orecchie, si alzò, puntò i piedi e saltò con tutta la sua forza d’animo addosso all’angelo, al suo daimon e all’amante agonizzante, e affastellò quelle ali battenti e trascinò tutti giù nell’abisso.

Può essere il feroce e disincantato lord Ringil di R. Morgan, un guerriero omosessuale che forse sta diventando lo stesso signore delle tenebre che dovrebbe sconfiggere, e che pure tiene testa alla devastante invasione dei bellissimi demoni Dwenda – O state con me o tutto il vostro parlare di onore, dovere e morte necessaria si rivela una bugia da cortigiani che si atteggiano. Li fermiamo qui, insieme – affiancato dal barbaro Egar, che tra una bevuta e una puttana sa sempre balzare con un sorriso folle a combattere insieme al vecchio commilitone – Io sto con la checca. Oppure il giovane e maldestro principe Yarvi, il “Mezzo Re” di J. Abercrombie, con la sua mano deforme:

Alcuni uomini corsero attraverso l’arcata. O cose che sembravano uomini. I banya. Ombre selvagge e lacere, lampi di facce bianche a bocca aperta, in un luccichio di bottoni d’ambra e d’osso e denti scoperti, armi in pietra levigata, zanne di tricheco e denti di balena. Strillavano e farfugliavano, urlavano e uggiolavano versi folli, come bestie, come diavoli, quasi che l’arcata fosse un cancello dell’inferno e quanto giacesse oltre si stesse riversando nel mondo. Il primo si abbatté gorgogliando con una freccia di Rulf nel petto ma gli altri si tuffarono tra le rovine e Yarvi incespicò lontano dalla fessura come se fosse stato schiaffeggiato. Il bisogno di correre via era quasi insostenibile, ma poi sentì la mano di Ankran sulla spalla e rimase, tremando come una foglia, ogni respiro un lamento affannoso. Tuttavia rimase.

E tuttavia rimase: quasi un inciso, nel quale però echeggia ancora una volta quell’antico grido, lanciato dal guerriero che non voleva abbandonare il suo signore: Hige sceal þe heardra,     heorte þe cenre mod sceal þe mare,     þe ure mægen lytlað.


[1]   Una consapevolezza che spesso si fa ferocemente ironica. Basti pensare al meraviglioso episodo nella saga di Njall: «Quando gli assalitori arrivarono non erano certi che Gunnarr fosse in casa e ordinarono a qualcuno di andare alla casa a vedere. Torgrìmir il Norvegese si arrampicò così sull’edificio. Gunnarr vide una casacca rossa contro un pertugio e la trapassò con l’alabarda. Al Norvegese cadde lo scudo, perse l’appoggio dei piedi e precipitò dal tetto. Quindi si mosse verso Gizurr e gli altri seduti per terra. Gizurr lo fissò e gli disse – Allora, Gunnarr è in casa? – Questo tocca a voi scoprirlo: io so soltanto che c’era la sua alabarda – Poi cadde a terra morto».


Il Sublime Simposio Del Potere

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Il bene maggiore per l’editoria

di Sergio Vivaldi

dite, amici, ed entrate

dite, amici, ed entrate

[Sotto il nome di Sublime Simposio Del Potere andava la mailing list che ha usato Vanni Santoni per convocare un manipolo di prescelti a parlare di fantasy il 17 gennaio 2015 a Firenze, nella bellissima libreria TodoModo. La discussione è stata ampia e interessante: per questo ho chiesto a tutti i partecipanti di provare a trascrivere il loro intervento.

I tempi sono stati epici, conformemente al tema trattato, ma gli eroi hanno vinto le loro battaglie, e siamo pronti adesso a presentarvi, ogni martedì, una diversa visione del mondo del fantasy, con l’auspicio che questo genere minore susciti ancora fiamme di passione e, soprattutto, un buon dibattito.

aye!]

La captatio benevolentiae è una tecnica retorica usata per accattivarsi il favore dei lettori e, avendo avuto l’infelice idea di parlare di un argomento complesso e controverso, queste prime righe dovrebbero servire a non farvi fuggire da questa pagina. In totale spregio dei maestri latini, quanto segue vi dirà che vampiri, lupi mannari e altre disgrazie sono la nostra salvezza. Mi spiego.

È ancora molto diffusa l’idea romantica di casa editrice come fonte inesauribile di opere d’arte e quando un prodotto non raggiunge determinati standard di qualità letteraria è un susseguirsi di domande su chi abbia permesso tale scempio. È facile dimenticare il costo dell’arte: l’anticipo per l’autore, e poi editor, redattori, grafici e ufficio stampa da pagare nel caso di un opera italiana, diritti di traduzione e traduttore in caso di opera straniera, costi di distribuzione, magazzini, locali… Quello compiuto dall’editore è un investimento senza alcuna garanzia di ritorno economico, un gioco in cui pochi errori possono essere fatali. Tre o quattro investimenti sbagliati e anche un editore affermato si troverà a navigare in cattive acque. Come si possono evitare errori in questa fase? Come scegliere un libro?

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Molti urlano il bisogno di contrapporre la qualità ai grandi successi di vendita, ma questa è una visione semplicistica, per tre motivi. Primo, buttare prodotti di qualità in un mare di mediocrità non impone un innalzamento della qualità degli acquisiti: qualcuno proporrà sempre mediocrità, qualcuno sempre la comprerà e ha tutto il diritto di farlo. Secondo, la qualità non è oggettiva. Edgar Allan Poe morì povero e alcolizzato, Lovecraft scriveva su riviste pulp, Shakespeare era per le masse, l’elenco potrebbe andare avanti per ore. Terzo, le mode sono passeggere e non sempre un buon romanzo viene apprezzato al momento dell’uscita. Peggio, un romanzo può rimanere sconosciuto al pubblico salvo poi, alcuni anni dopo, vedere lo stesso tema diventare virale con lavori non altrettanto validi. È impossibile prevedere queste dinamiche.

Se si considera anche il calo di lettori degli ultimi anni, allora scegliere cosa pubblicare è cruciale, e la tendenza è quella di affidarsi a prodotti riconoscibili su più media, anche quando le ragioni di una scelta non sono subito evidenti. Un esempio recente è Twilight: nato da un’idea di Stephenie Meyer, scrittrice americana di formazione mormone e pensato a scopo educativo, è diventato virale nel giro di pochi anni grazie anche ai film tratti dalla saga. Era un buon lavoro? Assolutamente no. Una lunga lista di cliché trattati male sono la base di personaggi deboli il cui insieme dà vita a una trama banale all’interno della quale si perdono i valori educativi di partenza. Lo dimostra la retorica dei lettori intorno ai personaggi stessi: l’intento era mettere in guardia dalle tentazioni del mondo adolescenziale, a partire dal sesso, ma la discussione si è concentrata su cosa fosse meglio tra licantropi e vampiri.

twilight

Se un editore si trova a lavorare in un mercato dominato da un racconto romantico in cui una ragazza si innamora di creature sovrannaturali, cosa può fare? Accodarsi al successo. Si crea un’etichetta dove raccogliere tutti questi titoli (paranormal romance) e si provvede a pubblicarli, perché sono “investimenti sicuri”. Andare controcorrente è una scelta coraggiosa, ma non tutti sono disposti a correre il rischio di essere schiacciati da un esercito di vampiri innamorati.

Twilight non è stato un fulmine a ciel sereno. Negli anni ’90 si ha un recupero della figura del vampiro, a partire dal cinema, dove troviamo una serie di produzioni a tema. Alcuni film sono diventati di culto, su tutti ricorderei Intervista col Vampiro: Tom Cruise, Brad Pitt e Antonio Banderas sono l’inizio di un cast ricco di grandi nomi. Visto il successo, il tema viene riproposto per un target più giovane con la serie televisiva Buffy – L’ammazzavampiri: l’eroina è una liceale eletta da forze sovrannaturali a difendere l’umanità dalla minaccia dei vampiri, che uccide senza pietà con un paletto di legno conficcato nel cuore. O almeno, uccide tutti quelli di cui non si innamora. La serie, iniziata nel 1999, ebbe un successo enorme, preparando il terreno per Twilight, che nel 2005 fece saltare il banco, ma erano i tempi a essere maturi perché accadesse. Altri contenuti editoriali non ebbero lo stesso successo, ma il paranormal romance e la figura del vampiro imperversano per anni, supportati anche da una serie televisiva, True Blood, nata anch’essa dai libri di un’altra scrittrice americana, Charlaine Harris.

Eppure la Harris non ha avuto il successo della Meyer. I suoi romanzi hanno venduto, trascinati dalla serie televisiva, ma non tanto da diventare un caso editoriale. Il motivo è semplice, e ci porta al secondo criterio di selezione, ma per capirlo è necessario tenere a mente che il fantastico è percepito come un prodotto per bambini e che la prima serie di True Blood è del 2008, mentre la campagna virale di George Martin in difesa del fantastico per adulti sarebbe cominciata solo tre anni dopo, nel 2011. True Blood e i libri da cui è tratto non sono pensati per un pubblico di adolescenti, nonostante presentino un gran numero di creature magiche di solito associate alle favole, e se un adulto non si crea problemi a guardare una serie televisiva nel privato della sua casa, potrebbe vacillare all’idea di essere visto in pubblico con un libro “per bambini”. Molte persone leggono in luoghi pubblici, in treno, in metropolitana, al parco, durante la pausa pranzo, e potrebbero ritenere queste letture un danno per la loro immagine sociale. Anche per questo non vedremo mai opere paranormal romance per adulti, che pure esistono e in alcuni casi sono di buona qualità. Leggereste un libro per adulti (con tutte le implicazioni sessuali del caso) che parla di donne innamorate di vampiri, seduti comodamente in metropolitana, magari con tanto di vampiro palestrato in copertina?

I potenziali lettori attratti da un certo titolo sono una discriminante, e questa suddivisione viene fatta per fasce di età. Neanche questa è una novità, la storica collana Harmony ha sempre avuto un pubblico ben definito, e sopravvive a tutt’oggi senza grosse crisi, ma trattando argomenti poco interessanti per la comunicazione multi-mediale non è mai stato troppo evidente. Al contrario la fascia dei lettori adolescenti non è solo una delle più forti, e dunque un mercato importante per le case editrici, ma raccoglie anche i lettori più vicini e familiari al concetto di multimedialità. Per questi motivi gli Young Adults (YA), i romanzi per giovani adulti, sono una delle miniere d’oro degli ultimi anni e uno dei criteri per la pubblicazione di un manoscritto.

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Cosa succede quando YA e paranormal romance vengono combinati? Twilight. A ulteriore dimostrazione di quanto sia stato casuale il suo successo. Negli ultimi anni si è abbandonata la strada del paranormal romance, ormai satura di pubblicazioni, ma prosegue la fortuna dello YA e del romance, questa volta attraverso distopie. Hunger Games (NB: se i “casi editoriali” fossero tutti come Hunger Games, questo scritto non avrebbe ragione di esistere) e le sue imitazioni (NB: per le imitazioni, rileggete la parentesi di prima togliendo la negazione) hanno spazzato via i vampiri, almeno per il momento, ma tra qualche (poco?) tempo il mercato sarà saturo anche di questi contenuti e arriverà una nuova moda, difficile prevedere quale, ma è facile scommettere che lo YA ne sarà ancora parte.

Un ultimo punto mi sembra importante sottolineare, quello delle nuove leve e del modo in cui vengono selezionate. Importare un autore straniero è ancora la scelta più sicura, perché la valutazione è stata fatta da altri e l’editore può fare leva sul successo internazionale e su strilli firmati da nomi altisonanti al momento del lancio. Il manoscritto di un autore italiano è un salto nel buio, una scommessa con l’ignoto. Spesso chi scrive non ha mai pubblicato nulla e si cimenta in un romanzo senza una gavetta o linee guida ma si basa su consigli raccolti in rete. La colpa non è da addossare interamente all’aspirante scrittore, ma anche allo scarso numero di riviste per la pubblicazione di racconti brevi. Se si considera solo la letteratura di genere, ampliando lo spettro anche alla fantascienza, il numero di riviste cartacee italiane di un certo peso è molto ridotto, il numero sale se si includono le riviste solo digitali ma conosco una sola eccellenza italiana riconosciuta a livello internazionale.

Come trovare nuovi autori italiani? Il mercato delle autopubblicazioni, per quanto rappresenti un’opportunità straordinaria, è un mare di lavori pessimi, spesso pubblicati senza alcuna forma di editing. La ricerca di prodotti validi in questo mare è sfiancante per una casa editrice, che non può avere le risorse necessarie per monitorarlo. La via più sicura per dimostrare il proprio valore rimane quella di affidarsi alle riviste e ai piccoli editori. Un piccolo editore potrebbe decidere di rischiare su un certo titolo, puntando sulla qualità, sulle basse tirature e sui lettori fidelizzati alla casa editrice stessa prima ancora che a un autore. È una gavetta lunga, spesso frustrante e per molti infruttuosa, ma l’unica in grado di garantire le credenziali necessarie. Il successo tramite l’autopubblicazione potrebbe fare più rumore, è l’equivalente di sfondare una porta a calci, ma funziona solo per pochi.

Lo sporco segreto dell’editoria è evidente a chiunque voglia vederlo: le scelte commerciali su lavori di bassa qualità, in particolare se presenti su molte piattaforme, sono fatte per cercare investimenti a ritorno sicuro, senza i quali gli editori non potrebbero sopravvivere (e anche così fanno parecchia fatica). Quando poi si opera nel contesto di un piano editoriale, questi soldi dovrebbero essere investiti su titoli più validi e su nuovi talenti. Ma. I nomi in circolazione sembrano sempre gli stessi. Il libero mercato porterà sempre prodotti di scarsa qualità. Il numero di lettori cala ed è sempre più difficile vendere. Educare alla lettura è un dovere, ma è importante farlo senza mortificare le scelte altrui per evitare di riportarli davanti alla televisione (meglio Breaking Bad di tanto altro, ma sto divagando). Mi piace tutto questo? No, ma è il punto di partenza che abbiamo, immaginarne uno diverso è un esercizio di retorica. Solo una domanda rimane senza risposta: secondo quale piano editoriale si sta lavorando?


[SSdP] Il gruppo degli eroi

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– Vanni Santoni –

Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze. Eravamo dieci: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul, Sergio Vivaldi.
Da oggi potrete leggere, una volta a settimana, gli interventi dei partecipanti, con il tag [SSdP]. E iniziare a organizzarvi per l’anno prossimo.

[uno]
la Compagnia dell’Anello disegnata dai f.lli Hildebrandt

Trovandomi per la seconda volta a dover introdurre il Sublime Simposio del Potere, e poiché l’iniziativa, assurta ormai a vita autonoma con questa seconda edizione, ha affinato il proprio campo d’azione fino a stabilire di avere come oggetto i topoi del fantasy, mi è parso naturale sceglierne uno che è, se non il principale, quello da cui sovente comincia l’avventura, ovvero il party – il gruppo degli eroi.

Una volta inquadrato il tema, mi sono però reso conto che si tratta anche di un topos per certi versi superato, almeno nella narrativa, e questo per una serie di ragioni legate alla sua origine. L’ur-party, va da sé (al netto degli Argonauti)è[1] la Compagnia dell’Anello. Gandalf il mago, Aragorn il ranger, Boromir il guerriero, Legolas l’elfo, Gimli il nano, Frodo, Sam, Merry e Pippin gli hobbit, per usare categorie mutuate da Dungeons & Dragons[2]  (sebbene a farlo pienamente si parlerebbe di halfling).

[tre]Prima della ''scatola rossa''… la primissima edizione D&D
Prima della ”scatola rossa”… la primissima edizione Dungeons&Dragons

Tanto archetipico da aver generato anche un clone – o, ad essere più precisi, un rip-off – di considerevole abiezione: il gruppo della Spada di Shannara, con i suoi Shea e Flick per Frodo e Sam, il suo Allanon/Gandalf e ancora[3] Menion/Aragorn, Balinor/Boromir, Durin&Dayel/Legolas[4]. Appena nata, la Compagnia dell’Anello era già un cliché, riproducibile quanto si vuole (eviteremo per buon gusto di addentrarci nell’analisi del party di Dragonlance) ma quindi utile giusto per i giochi di ruolo, o al massimo per cartoni animati (non a caso mediocrissimi) come quello dedicato allo stesso franchise TSR.

[due]
la Compagnia della Spada di Shannara, sempre ritratta dai f.lli Hidebrandt

In effetti, proprio nelle categorie alla Dungeons & Dragons stanno la fortuna, e i limiti, del ‘‘party’’. Nella Compagnia dell’Anello non c’è particolare equilibrio, la potenza di Gandalf non è paragonabile a quella di Merry e Pippin, e se fosse una campagna di D&D chi interpreta questi ultimi sarebbe di certo scontento rispetto a chi governa un mago di altissimo livello. Lo stesso Tolkien, poi, consapevole dei limiti narrativi insiti nel mandare in giro un simile gruppone, spezza la compagnia quasi subito. Tuttavia proprio D&D, nella sua natura di gioco sviluppato a partire dai war games, si è appropriato del modello tolkieniano[5] e lo ha trasformato nell’idea che tuttora ristà nell’immaginario condiviso e che ancora ogni tanto spunta fuori nella fiction.

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Il cartone animato di Dungeons & Dragons

Il ‘‘party’’, con funzioni differenti anzitutto dal punto di vista tattico – guerrieri e nani a menare, maghi a far da artiglieria, ladri a far da scout, elfi, halfling e ranger in posizioni intermedie, più i chierici, assenti dall’universo tolkieniano – era ed è perfetto per creare situazioni di combattimento variegate e interessanti e far divertire tutti i giocatori.

La cosa si è immediatamente riflettuta nei videogiochi: già in quelli più rudimentali, come Eye of the beholder con le sue due file (davanti i picchiatori, dietro quelli con spell e armi da lancio) o Ultima V e seguenti col suo gruppo disposto a piramide, si giovavano delle opzioni tattiche previste da tale varietà[6], e la cosa non è cambiata via via che, passando per Baldur’s gate e arcade come Tower of doom e Shadow over Mystara, si arrivava fino all’oggi.

La schermata finale di Ultima5, col party schierato
La schermata finale di Ultima5, col party schierato

A livello letterario, però, per quanto la motley crue, che unisce alla logica del party quella del gruppo di ‘‘outcast’’ alla riscossa, sia un dispositivo tuttora presente – ne fa buon uso, tra gli autori contemporanei, Joe Abercrombie, tanto nel Sapore della vendetta quanto nel Mezzo mondo – si è andati ben presto in altre direzioni. Gli si è preferita a volte la logica squisitamente omerica del gruppo misto – stante un dato set di eroi, l’Iliade presenta sottogruppi variamente assortiti alle prese con le diverse ‘‘avventure’’ – e ancora più spesso lo schema howardiano dell’eroe solitario, occasionalmente supportato da una o due spalle (o, volendo sfiorare la dimensione dei cartoni animati giapponesi, che hanno declinato il gruppo degli avventurieri secondo una propria logica a tre o a cinque, di uno ‘‘smilzo’’ e di un altro scelto grossomodo tra le opzioni ‘‘grosso’’, ‘‘ragazza’’ o ‘‘bambino’’[7] ).

[sei]La Squadra dei Falchi di Berserk
La Squadra dei Falchi di Berserk

Si tratta probabilmente di una scelta che ha a che fare con esigenze drammatiche e psicologiche, questioni di cui Tolkien poteva ben evitare di curarsi – il suo obiettivo era del resto la mitopoiesi, non intrattenere il lettore con grandi avventure, sebbene poi riuscisse in entrambe le cose – ma che tornano necessarie al romanziere una volta presa coscienza del fatto che stare nel solco del più nobile dei padri non può essere troppo fruttuoso, a meno di voler deliberatamente finire nell’oleografia e nel manierismo.

Io stesso, lavorando al primo storyboard di Terra ignota, e stabilito che vi sarebbe stata un’unica protagonista, quell’Ailis figlia dell’Alice di Carroll e del Goku di Toriyama, prima ancora che di grandi donne guerriere come la Bradamante ariostesca, l’Alita di Yukito Kishiro o la Sposa tarantiniana, sapendo che non vi sarebbe stato fantasy intertestuale compiuto senza momenti ‘‘di gruppo’’, ho optato per schemi a tre. Il primo gruppo Ailis-Vevisa-Breu (eroina-‘‘smilza’’-grosso) lascia poi il campo, nella seconda parte del primo romanzo, a quello Ailis-Brigid-Val (eroina-‘‘smilza’’[8] -‘‘ragazzo’’): una scelta effettuata sia per il debito estetico e strutturale che il romanzo ha nei confronti degli anime fantastici e del lavoro di Howard (nonché della sua trasposizione cinematografica ad opera di John Milius), sia per la maggior efficacia di un simile schema nel mettere in scena rapporti tra protagonisti, se non necessariamente ‘‘psicologici’’ in senso stretto – mito, fiaba e loro derivati non sempre vanno d’accordo con la psicologia, almeno non nel senso che ha quest’ultima per il romanzo moderno e contemporaneo – almeno flessibili e intercambiabili, e quindi non necessariamente vincolati al ruolo preordinato che ciascuno avrebbe nel ‘‘gruppone’’: di nani burberi e di elfi tiratori ci bastavano i primi, e facciamo tutti volentieri a meno dei successivi.

Note:

[1] (al netto degli Argonauti)
[2] cosa che spiega anche perché, nella prima edizione di Dungeons & Dragons, ‘‘elfo’’, ‘‘nano’’ e ‘‘halfling’’ fossero classi e non, come è logico, razze.
[3] per non parlare dell’oscuro signore Broma/Sauron, con i suoi Skull Bearers/Nazgûl
[4] avendo due soli hobbit tarocchi, ecco lo sdoppiamento degli elfi.
[5] lì la taumaturgia, riprendendo la tradizione dei Franchi, è infatti prerogativa del Re.
[6] cosa che poi trovò declinazioni anche estreme, come in Suikoden, in cui si poteva scegliere tra 108 personaggi.
[7] di particolare interesse in questo specifico caso è il ‘‘party’’ di Berserk, fumetto di Kentaro Miura che riusciva, almeno nel suo periodo d’oro, a combinare suggestioni ed estetica fantasy occidentale con stilemi e dispositivi narrativi classici del manga e dell’anime. Nella Squadra dei Falchi, oltre al leader Griffith, di cui Guts è ‘‘smilzo’’ e specchio e futuro antagonista, abbiamo un ‘‘team a cinque’’ impeccabile, essendo composto dal ‘‘leader Guts’’, dallo ‘‘smilzo’’ Judo, dalla ‘‘ragazza’’ Caska, dal ‘‘grosso’’ Pippin e dal ‘‘bambino’’ Rickert.
[8] nonché futura antagonista, secondo proprio il modello dei Guts e Griffith di Berserk, ma anche dei Naruto e Sasuke di Naruto, due manga che curiosamente condividono anche l’essere partiti in modo impeccabile (sia pure nelle differenze che necessariamente hanno un seinen d’arte come Berserk e uno shōnen commerciale come Naruto) per poi sfrangiarsi narrativamente fino alla rovina, e prima di giungere all’atteso scontro finale. Si potrebbe quasi arguire che la conclusione dell’arco narrativo di Terra ignota a cui si assiste in Terra ignota 2 – Le figlie del rito nasca come mio personale emendamento della delusione datami da queste due serie.


Vanni Santoni, 1978, dopo l’esordio con Personaggi precari (RGB 2007, poi Voland 2013), ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), Terra ignota e Terra ignota 2 (Mondadori 2013 e 2014), Muro di casse (Laterza 2015). È fondatore del progetto SIC – Scrittura Industriale Collettiva (In territorio nemico, minimum fax 2013); per minimum fax ha pubblicato un racconto nell’antologia L’età della febbre (2015). Dal 2012 dirige la narrativa di Tunué. Scrive sulle pagine culturali del Corriere della Sera e sul Corriere Fiorentino.



[SSdP] Le sentinelle siamo noi

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– Francesco D’Isa –

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Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul, Sergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.

Potete chiamarli Guardie di Palazzo, Guardie Cittadine o Guardie e basta. Qualunque nome abbiano, in ogni opera di genere fantasy-eroico il loro scopo è lo stesso: più o meno al capitolo 3 (o dopo 10 minuti di film) irrompono nella stanza, attaccano l’eroe uno alla volta e vengono massacrati. Nessuno chiede mai se sono d’accordo. Questo libro è dedicato a quei nobilissimi uomini.

– Terry Pratchett

Un manipolo di eroi, col suo carico di artefatti e armi incantate, si dirige verso l’orizzonte. Li attende una leggendaria battaglia; affronteranno dei mostruosi titani, in grado di annientare intere civiltà con una stretta di mano. Un po’ più in là invece, dietro a questo gruppo di valorosi, si intravede una città; al suo interno un castello, attorno al castello una cinta muraria e sugli spalti dei soldati. I soldati sono semplici uomini, e non possono nulla contro i titani, la loro sorte dipende interamente dalla battaglia degli eroi. Sono persone qualunque e per quanto possano avere coraggio, la loro natura è quella di tutti i comuni mortali, la nostra.

Le sentinelle sugli spalti, gli orchetti degli eserciti di Sauron, i punk ghignanti di Kenshiro, le Stormtroopers di Guerre Stellari… la letteratura fantastica negli anni ha attraversato dei grandi mutamenti, ma di una cosa non può liberarsi: la “carne da macello”.

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Si tratta di persone, mostri o creature il cui scopo, nel fantasy così come nella mitologia, è dare una misura a ciò che non sarebbe calcolabile, l’immenso potere degli eroi e dei loro avversari. Guardie, orchetti, sentinelle, cittadini, tutta la marmaglia che crolla al soffio del più debole degli eroi, non sono altro che l’unità di misura minima del potere, il millimetro di cui è fatto il centimetro che compone il metro che crea il chilometro degli dei. Ma non per questo vanno dileggiati come se fossero inutili comparse, perché compongono l’alfabeto con cui la mitologia cerca di avvicinarci al concetto di infinito.

Qualche esempio. Se vi trovate davanti un orco degli eserciti di Sauron del Signore degli Anelli, probabilmente avrete la peggio. Questo perché nel mondo di Tolkien siete – senza offesa – un gradino ancora più basso dell’orco nella scala del potere, anzi, siete proprio il gradino più basso, il cosiddetto commoner, l’individuo comune che appare anche nel D&D e nei videogiochi. D’altro canto sapete anche che da qualche parte ci sono eroi che non solo sconfiggerebbero l’orco senza timore, ma che, come Gimli e Legolas, farebbero addirittura a gara a chi ne ammazza di più. Non solo; un potente stregone, quale Saruman, sconfiggerebbe senza troppi problemi questi due potenti guerrieri, ma avrebbe qualche difficoltà contro un demone antico come un Balrog, che a sua volta nulla potrebbe contro Sauron, l’Oscuro Signore, che in principio era schiavo del crudele dio Morgoth… quanto ci si siamo allontanati dalle vostre misere forze? Eppure non potremmo comprendere la potenza di un Morgoth senza percorrere la scala di cui siete i gradini.

Nel celebre fumetto e anime Dragonball, come nella leggenda da cui è tratto, Lo Scimmiotto di Wu Ch’êng-ên, questo meccanismo è portato all’esasperazione. Ogni avversario richiede a chi lo sconfigge degli sforzi immensi, ma il vincitore a sua volta non riesce neanche a scalfire il nemico successivo, che a sua volta non può nulla contro chi lo sconfigge e così via, da Vegeta a Freezer, da Freezer a Cell, da Cell a Majin Buu.

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Un esempio ancora più estremo è la classifica dei supereroi della Marvel – già si parla supereroi, che è gente non solo più forte di noi, ma anche degli eroi. Questi innumerevoli personaggi vengono sistemati in una complessa gerarchia che compone il cosiddetto “Universo Marvel”, una dimensione spazio-temporale immaginaria nel quale si svolgono la maggior parte delle avventure dei fumetti pubblicati dalla Marvel Comics. Impossibile descriverlo in breve, ma scalando velocemente la piramide del potere, si arriva presto a divinità come Thor e Odino, che comunque non sono nulla in confronto a strani personaggi come Galactus.

Passare dal commoner (che nell’ Universo Marvel potrebbe essere un passante di New York City) a creature il cui potere è sufficiente a distruggere interi mondi, costringe gli autori Marvel a personificare anche delle entità astratte. Cito liberamente da Wikipedia, che per informazioni di questo tipo è sempre affidabilissima:

Sopra ogni essere dell’Universo Marvel, ci sono le Entità Cosmiche, creature con poteri inimmaginabili che esistono per compiere il dovere di mantenere la vita nell’universo. Molti di loro non si preoccupano degli “esseri inferiori” come gli umani, e infatti le conseguenze delle loro azioni possono essere pericolose per i mortali. Quando feroci nemici minacciano l’integrità dell’universo, non è insolito che queste entità si radunino e discutano sul problema. Tra le più importanti ci sono Morte, Eternità, Galactus e infine il Tribunale Vivente, un essere onnipotente, onnipresente e onnisciente. Sopra tutti gli dei, le entità cosmiche e anche sopra il Tribunale Vivente esiste una sola, unica suprema creatura conosciuta come il “Supremo”. [Traduzione italiana di: One-Above-All] […] Il Supremo è completamente onnipotente, onnisciente, onnipresente, universale, onniveggente e onnicomprensivo. È al di sopra di tutto e tutti e nessuno può opporsi alla sua volontà. Perfino l’esistenza è insignificante per lui. Il potere del Cuore dell’Universo è infinitamente inferiore a quello del Supremo. Il suo potere è infinitamente superiore a tutto quello contenuto nell’intero Omniverso.

Il Supremo è l’infinito, il punto di fuga verso cui tende l’iperbole del potere. L’Universo Marvel, così come quello del Signore degli Anelli, Dragonball, Kenshiro, Guerre Stellari e tutte le produzioni fantasy, cerca di assolvere uno dei compiti più teologici della mitologia, avvicinare l’uomo all’infinito.

È il momento di raccontare in breve un’antica leggenda indiana, tratta dal Mārkandeya Purāṇa.
Un demone, di nome Mahishasura, grazie a intense preghiere a Brahma, ottiene la grazia di non poter essere sconfitto da alcun uomo o essere celeste. In virtù di questo potere, attacca gli dèi stessi e li sconfigge tutti. Scatena un regno di terrore su terra, il cielo e gli inferi. Gli dèi creano allora un abbagliante raggio di energia dal quale nasce la dea Durga. La sua forma è di una bellezza accecante, con il viso scolpito da Śiva, il busto da Indra, il seno da Chandra (la Luna), i denti da Brahma, le natiche dalla Terra, le cosce e i ginocchi da Varuna (il vento), e i suoi tre occhi da Agni (il fuoco), il corpo dorato e dieci braccia. Ogni dio le diede anche la sua arma più potente: Śiva il tridente, Viṣṇu il disco, Indra la vajra, dalla quale scaturisce la folgore, ecc.
La dea raggiunge Mahishasura, uccidendo le migliaia di demoni che cercano di contrastarla lungo il cammino. È così bella che inizialmente il mostro le propone di sposarla, ma la dea, che può ambire a qualcosa di più che un demone che somiglia a un bufalo, lo uccide dopo una tremenda battaglia. La battaglia è lunga e terribile, ma Durga la inscena quasi per cortesia, perché è in grado di sconfiggere il nemico con un colpo solo.

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Perché Durga non ammazza subito il bufalo-demone? Le interpretazioni sono varie; si dice che la dea, nella sua bontà, voglia concedere al demone una possibilità di espiazione, che può accadere solo attraverso la sua vana lotta contro l’infinito potere di Durga. Davanti al vero potere degli dei (davanti all’infinito) le potenze terrene (i numeri finiti) non sono altro che metafore; in questo senso la mitologia, e con lei il fantasy, ci racconta un’unica storia ineffabile e indicibile, nella quale i nostri “uomini comuni” hanno un ruolo a pari merito con gli dei. In fondo, davanti all’∞, che differenza c’è tra 4 e duemila miliardi?

Ricapitoliamo. I commoner non possono nulla contro gli orchetti, che non possono nulla contro gli eroi, che non possono nulla contro un drago eccetera eccetera, ma tutti, e qui sta il punto, sono impotenti di fronte all’infinito. Si potrebbe obiettare: «Ok, siamo degli sfigati, ma perché questo impegno per farcelo notare?». La summenzionata Durga direbbe che riconoscere la piccolezza del nostro mondo limita la misura del dolore e dei desideri che lo pervadono. E se la consolazione non fosse un motivo sufficiente, si percorra la strada a ritroso: niente orchetti senza commoner, niente eroi senza orchetti, niente draghi senza eroi, niente infinito senza draghi. E dunque niente infinito senza di voi.


Francesco D’Isa ha esposto quadri e pubblicato libri, come I., (Nottetempo, 2011), Anna – storia di un palindromo (Effequ, 2014), Ultimo piano (o porno totale) (Imprimatur, 2015), Forse non tutti sanno che a Firenze… (Newton Compton 2015). Dirige L’INDISCRETO e scrive su vari blog e giornali.


[SSdP] Pussy Riot – L’eroina nel romanzo fantasy

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– Matteo Strukul –

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Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul, Sergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.

Inizierei il mio intervento riflettendo su quanto le origini di una pressoché infinita galleria di personaggi femminili del fantasy più recente (Katniss Everdeen di Suzanne Collins, Clary di Cassandra Clare, Celaena di Sarah J. Maas, Kelsea Glynn di Erika Johansen) siano inscindibilmente legate ad alcune delle figure della mitologia che più di tutte – a mio parere – hanno contribuito alla nascita di personaggi straordinari. Non potrei allora non ricordare anzitutto le Valchirie: le loro cavalcature erano i lupi (Valchiria+lupo=corvo) che si aggiravano fra i cadaveri dei guerrieri morti in battaglia. Esse erano le figlie di Wotan o Odino e sceglievano i più eroici tra i caduti per portarli nel Valhalla, dove diventavano einherjar. Così facendo, Odino avrebbe avuto un esercito di valorosi al suo fianco alla fine del mondo, durante i Ragnarök. Al loro fianco porrei le Banshee, le donne piangenti e urlanti del folclore irlandese, che vivevano vicino alle paludi o alle sorgenti. Rimanendo in questa tradizione europea, ricorderei alcune figure chiave di personaggi femminili di riferimento per le moderne eroine fantasy, al di là degli archetipi, voglio dire.

Cito allora Brunilde regina d’Islanda di cui Gunther re dei Burgundi, fratello di Crimilde, s’innamora nel Nibelungenlied. Per ottenere la sua mano; il re decide di chiedere aiuto al compagno d’armi Sigfrido, figlio di Siegmund e Sieglinde, eroe vincitore dei Nibelunghi, reso invulnerabile dal sangue del drago Fafnir. Questi, in cambio della mano di Crimilde, decide di aiutarlo. Brunilde, vergine guerriera dalla forza immensa, impone una duplice prova ai suoi pretendenti: la sposerà solo chi riuscirà a raggiungere d’un balzo un masso scagliato da lei lontano e riuscirà a vincerla in duello. Brunilde sa bene che è una sfida impossibile, e pregusta l’ennesima vittoria. Ma Sigfrido, reso invisibile grazie alla Tarnkappe rubata al nano Alberico, combatte al fianco di Gunther e batte Brunilde: la vittoria dei due uomini, insomma, è possibile solo con l’inganno.
E ancora, per rimanere nel Nibelungenlied, che dire di Crimilde e della sua sanguinaria vendetta protagonista dell’intera seconda parte della saga germanica? Colei che per vendicare la morte dell’amato non esita a chiudere la sala del trono, facendo appiccare il fuoco e così sterminando tutti i Burgundi?

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Ma, per non fermare la nostra indagine al mondo germanico, conviene anche guardare alle Amazzoni, di origine Caucasica secondo Eschilo, con la mammella mutilata per meglio (Virgilio stesso nell’Eneide immagina Pentesilea – una delle loro regine – con il seno compresso da una fascia dorata) tirare con l’arco. E ancora, come poter riassumere in poche parole una figura come quella di Clorinda, la guerriera della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, figlia di Senapo, re d’Etiopia e dunque Africana ma albina, uccisa da Tancredi in duello per errore? E non dimentichiamo Armida, Circe, Didone…

Dunque quali e quante sono le maghe e le guerriere, le streghe e le combattenti della nostra tradizione letteraria e più in generale di quella europea, e quanto il mito e il folklore hanno forgiato il fantasy ben prima che un professore inglese decidesse di scrivere una storia su uno hobbit? Lo dico senza arroganza o albagia, ma al solo scopo di richiamare l’attenzione su quella che è un’eredità di cui dobbiamo imparare a riappropriarci. Che dire di Giovanna D’Arco e delle sue visioni? O del mito sanguinario di Erszebeth Bathory, la contessa nera d’Ungheria? E dunque quanto il medioevo e la storia più nera delle terre dell’Est e in definitiva la Storia e il romanzo storico hanno saputo forgiare il materiale magmatico del fantasy? E non dovremmo ancora e forse pensare a quanta parte hanno avuto i “Penny Dreadful” e la Pulp Fiction nella formazione di alcuni personaggi? Proprio alla Storia pensa Robert E. Howard quando nel 1934 immagina il personaggio di Red Sonya of Rogatino per il racconto The Shadow of the Vulture, una guerriera turca dalla chioma rossa durante l’assedio di Solimano il Magnifico, che a sua volta diventa archetipo per la Red Sonya di Roy Thomas e Barry Windsor Smith.

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Insomma, esiste nella tradizione letteraria storica e fantastica un’incredibile schiera di personaggi femminili – noi ci siamo limitati a segnalarvene alcuni – e sono proprio loro la più grande ispirazione per i moderni e grandi personaggi femminili del fantasy, e ancor di più del Low Fantasy o dello Sword and Sorcery.

Per la prima volta ho scelto una donna come protagonista. Bella da mozzare il fiato, Monza Murcatto è un capitano di ventura, ed è diventata tale grazie ai propri meriti militari, ottenendo il successo in un mondo maschile per eccellenza. Tutto ciò l’ha resa spietata, paranoica, forte fisicamente e con uno humor caustico. Una fama sinistra le ha garantito l’ammirazione dei suoi, incutendo il terrore negli avversari. Dopo essere stata tradita e quasi uccisa, cercherà vendetta. Assolderà tagliagole, avvelenatori e mercenari ma sarà lei a uccidere con le proprie mani i suoi nemici.

Sono queste le parole con le quali un maestro contemporaneo del fantasy, Joe Abercrombie, ci racconta la protagonista di Best served cold, sottolineando quali e quante prospettive il personaggio femminile possa aprire in un genere come il fantasy: l’ossessione, la vendetta consumata fredda, la menzogna, la paranoia, il coraggio e la fragilità, lo humor caustico: quelle qualità che sono spesso prerogativa di un personaggio femminile proprio perché è più la donna – nella sua complessità – a presentare per l’autore la grande sfida di raccontare un personaggio complesso, sfaccettato, contraddittorio e perciò affascinante e così facendo profondamente noir e lirico.

Interessante poi sottolineare l’opinione di Licia Troisi – regina del fantasy italiano e capace di creare eroine memorabili come Nihal, Dubhe, Talitha e molte altre:

Quando ho cominciato a descrivere personaggi femminili forti, mi sono semplicemente ispirata a quelle che erano le mie figure di riferimento: mia madre, le donne che mi sono state vicino, la donna che volevo essere io… Avendo intorno delle donne forti per me era naturale descrivere donne che fossero fuori dagli schemi, autonome e libere di fare quello che volevano. Adesso sono diventata più consapevole del contesto in cui ci troviamo, quindi non si tratta più di una scelta ingenua. Quando creo un personaggio femminile sono contenta di farne uno al di fuori degli stereotipi classici della nostra società. Ho l’impressione che ci sia un modello di donna molto pervasivo: o la donna completamente dedita alla famiglia, che si annulla in essa, oppure la donna di malaffare che ha solo il suo corpo per riuscire ad emanciparsi. Siccome in mezzo ci sono miliardi di altre declinazioni del femminile secondo me è importante che qualcuno le possa presentare. La mia impressione è che nella letteratura ci sia questa volontà, e che in questo momento ci siano molte eroine femminili, come ad esempio Katniss Everdeen, che mi ha subito colpita molto come personaggio. Il problema è che la letteratura, almeno in Italia, ha una capacità di penetrazione tutto sommato limitata. I libri continuano purtroppo a parlare a persone che queste cose le sanno già.

Joe Abercrombie propone dunque l’eroina come nuova prospettiva letteraria per i personaggi fantasy, Licia Troisi vi vede anche un simbolo per sovvertire i cliché sulle donne proprio attraverso la letteratura. Oppure, ancora, l’eroina e il personaggio femminile consentono la rilettura della storia in una chiave completamente nuova, pensate a quel capolavoro che è La torcia di Marion Zimmer Bradley, che prende le mosse dalle visioni di Cassandra, la principessa troiana condannata dagli dèi a non essere mai creduta. Per bocca di lei, l’autrice fa rivivere gli eventi che portarono alla caduta di Troia, le gesta dei guerrieri, i riti e le leggende di un passato che ci parrà di conoscere per la prima volta. E per la prima volta vedremo, con i suoi occhi, ciò che a nessuno era dato di vedere.

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Ecuba che abbandona la sua formazione tra le amazzoni per sedere al fianco di Priamo come Regina di Troia; Clitemnestra sottomessa al marito, che si vede strappare la primogenita cui sperava di donare il dominio di Micene in nome di dèi per lei falsi; Elena, costretta al matrimonio con Menelao dal suo popolo, che ha seguito i comandi di Afrodite ed è fuggita a Troia al seguito dell’uomo che amava, invisa alle nuove parenti e alle usanze di Ilio, e diverrà involontaria causa della caduta della città; Andromaca, figlia dell’incontrastata regina di Colchide, che ha preferito darsi in sposa a Ettore per ottenere la protezione degli uomini che la madre tanto disprezzava. Ecco il ribaltamento della prospettiva, la fusione fra mito, epica e fantastico, un esempio mirabile, ecco il racconto della guerra di Ilio visto attraverso gli occhi di Cassandra: contesa tra la Dea e Apollo, che crebbe sotto l’ala della Madre di tutto e divenne sacerdotessa del Dio del Sole, e che fu da lui punita perché rifiutò di concederglisi con la privazione della Vista. Ma un dio non può privare un mortale di un dono che non è stato lui a concedergli, dunque la sua punizione si trasformò nella maledizione di Cassandra: predire e non essere mai creduta. Invisa ai suoi stessi familiari, persino allo stesso fratello gemello, perché continua latrice di cattive notizie, Cassandra si sposta di paese in paese alla ricerca di un luogo che l’accetti, e tuttavia sempre spinta dal suo fato a tornare a Troia, dove si compirà il suo destino.

Concluderei con un altro autore che stimo e che molto sta dando al genere fantastico italiano e non solo ed è, pensando a Ailis, la protagonista della trilogia di Terra ignota, Vanni Santoni:

La scelta di una protagonista femminile era naturale. L’eroe maschio è esploratissimo a tutti i livelli, mentre l’eroina donna è ancora un territorio relativamente vergine, certo ci sono dei capisaldi, penso a Battle angel Alita, a Kill bill, a Queste oscure materie, a Ghost in the shell, al recente Hunger Games, oltre che ovviamente alla prima, più diretta e più grande “madre” di Ailis, l’Alice di Carrol, ma c’è ancora molto spazio per declinare l’archetipo in nuove direzioni. C’entra poi il fatto che un mondo ancestrale al femminile – un mondo di dee – è, di fatto, “più ancestrale” di un mondo di dèi.

Radice ancestrale, avita, atavica, primigenia: è forse il fantastico in chiave femminile la culla prima della letteratura? Noi non lo sappiamo, ma quel che è certo è che proprio dalle posizioni che ripetono le proprie origini dalla fonte del grande fiume della letteratura popolare che il fantastico italiano deve ripartire.


Matteo Strukul (Padova, 1973) è scrittore e sceneggiatore di fumetti. Vive fra Padova, Berlino e la Transilvania. Ideatore e fondatore del movimento letterario Sugarpulp e direttore artistico dell’omonimo festival. Collabora con diverse testate, tra cui il Venerdì di Repubblica.
Ha pubblicato per Mondadori La giostra dei fiori spezzati (2014) e per Multiplayer I Cavalieri del Nord (2015). Scoperto da Massimo Carlotto, ha pubblicato per le edizioni e/o i tre romanzi della serie di Mila: La ballata di Mila (2011), Regina nera (2013) e Cucciolo d’uomo (2015). Nel 2016 è in uscita con un romanzo per Fanucci e nel 2017 con un altro su Giacomo Casanova per Mondadori.


[SSdP] Contro la perfezione: il mito dell’antieroe

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– Alfonso Zarbo –

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Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul, Sergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.

Diciamola tutta: dell’eroe classico, quello dal cuore d’oro, che vuole solo il bene comune e si comporta sempre in modo corretto e gentile, non importa più niente a nessuno. Lo ha fatto fuori l’antieroe. Nel cinema come nella letteratura, dove non c’è tornaconto personale le alleanze si sfaldano, il cinismo soppianta l’altruismo, e quello che la spunta è un losco, sarcastico, menefreghista dal tradimento facile che non si fa problemi a rubare (Jack Sparrow). O un bello ma dannato (Spartacus, nella serie TV firmata STARZ). O un donnaiolo, bugiardo, che beve, gioca d’azzardo ed è anche un po’ maschilista, ma nonostante tutto ha un carisma da vendere e riesce a conquistarci con il suo ghigno feroce (Conan il barbaro). O, ancora, possiede un’intelligenza distante anni luce dai comuni mortali (Tyrion Lannister). Che ogni tanto, però, mostra il suo lato più sensibile, perché si badi bene: l’antieroe non è il cattivo della situazione. Anzi, talvolta è più risolutore dell’eroe stesso. E allora non possiamo che tifare per lui.

La definizione classica di antieroe vuole appunto una figura priva delle connotazioni puramente positive generalmente attribuite all’eroe: irascibile, fallibile. Se ne può avere una lettura epica e quasi drammatica, oppure, come in un caso famoso che vedremo più avanti, il ribaltamento può avvenire in chiave comica, picaresca. In ogni caso, quello che viene meno, è la purezza lineare delle azioni dell’eroe, in favore di ragionamenti più contorti, talvolta oscuri. L’antieroe, insomma, ci piace così: difficile da inquadrare e da analizzare nel profondo per essere compreso. Che siano politicamente scorretti, pieni di difetti o che vivano in una realtà tutta loro infischiandosene dei dettami della società, sono loro i protagonisti di cui vogliamo sapere tutto.

E non è certo una figura nata ai giorni nostri: basta dare un’occhiata alle origini della narrativa fantastica per farsi un’idea di quei personaggi indimenticabili che per primi hanno dato una spallata al perfettino di turno.
Nel mito assiro-babilonese, c’è Gilgamesh: un re crudele, per due terzi divino e per un terzo mortale, le cui prepotenze nei confronti del popolo di Uruk spingono gli dèi a generare un rivale per contrastarlo. Gilgamesh è il primo a dover fare i conti con la fragilità della vita. La sua volontà di sopravvivenza rivela uno stato d’animo che affronta la precarietà quotidiana con ansia, mentre l’apparizione del nemico/amico Enkidu lo porterà ad accorgersi che il trascorrere del tempo nell’oltretomba è fatto di rimpianti per le occasioni perdute. Un eroe tragico, il cui senso di smarrimento lo accomuna agli uomini di allora e di oggi, che ci fa immedesimare in lui.
I secoli scorrono, l’acciaio anche, e nelle terre irlandesi si fa strada con prepotenza il mito celtico di Cùchulainn. Può il “Mastino di Irlanda”, ragazzo fragile all’apparenza ma che sa trasformarsi in un combattente dalle collere devastanti, non ricordarci il famoso barbaro partorito dalla mente di Robert Ervin Howard? Chùchulainn guadagna il suo nome quando uccide il cane da guardia del fabbro Culann e, per riparare al torto, si offre di sostituirlo come servitore.  I racconti su di lui lo spingono verso una vita amara quanto quella di Gilgamesh: Cùchulainn è infatti destinato a soprendere un intruso, ucciderlo perché rifiuta di farsi identificare, e scoprire poi che si trattava del proprio figlio, partito alla sua ricerca.

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Come dicevamo poco fa, però, non esistono solo antieroi epici. Lo dimostra il cavaliere errante più impacciato di tutti i tempi: Don Chisciotte della Mancia. Uomo qualunque, rimasto così affascinato dalle storie epico-cavalleresche da farsi nominare cavaliere da un locandiere, il personaggio di Miguel De Cervantes vive in un mondo tutto suo, combattendo contro mulini a vento ed eserciti di pecore. Finirà col perdere in tutte le sue paradossali avventure, suscitando l’ilarità delle persone che assistono alle sue folli gesta. Il finale dolceamaro del libro serve a ristabilire gli equilibri di ciò che è vero e ciò che è falso, ma per ogni lettore la “realtà” di Don Chisciotte rimarrà sempre quella in cui lui è più felice e a suo agio, a prescindere dalle risate altrui.

Arriviamo a cavallo tra la fine del Settecento e il tardo Ottocento, e ancora una volta quello che poi diventerà il genere Fantasy, così come la figura stessa dell’antieroe, traggono nuova linfa da leggende e nuove narrazioni: in questo caso, a farla da padroni sono i romanzi del terrore, figli dark dei miti luminosi e eroici dello Sturm Und Drang. Con il Romanticismo europeo ricompaiono infatti elementi mitologici che troveranno ampio sviluppo prima in forma narrativa e poi nel cinema, ma il concetto di bellezza, di virtù e perfino del cosiddetto eroe “senza macchia e senza paura” oltrepassa finalmente il senso tradizionale. Si comincia ad apprezzare non soltanto il lato bello delle cose ma anche quello spaventoso, atipico, violento. Scompare ogni traccia di una volontà ultraterrena che guida le gesta dei protagonisti, e anzi si esaltano l’emotività e l’affermazione del carattere individuale dell’artista, condannato al sentirsi escluso dalla società in quanto individuo incompreso, ma allo stesso tempo “privilegiato” perché dotato di immaginazione e profondità maggiori rispetto alla gente comune: basti pensare ai grandi poeti del Decadentismo, alla baudelairiana “perdita dell’aureola”.
Parallelamente, unendo la nuova cupezza narrativa alla passione per lo strano e il soprannaturale, fanno la loro comparsa personaggi e libri indimenticabili come Dracula di Bram Stoker, ispirato alla figura storica del principe valacco Vlad l’Impalatore; Frankenstein di Mary Shelley, che approfondisce il rapporto tra l’uomo e la scienza, i limiti scientifici oltre i quali non è lecito spingersi e diventa il simbolo del “diverso” emarginato dalla società e della creatura artificiale che si ribella al creatore.
Grazie a un maestro del calibro di Edgar Allan Poe, i lettori si immergono sempre di più negli abissi dell’io, nelle angosce e nelle paure dell’uomo moderno. Robert Louis Stevenson darà vita a Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, insinuando l’idea dello sdoppiamento, e Arthur Conan Doyle non sarà da meno, con le qualità fuori dal comune, i misteri da risolvere e le atmosfere tenebrose del suo Sherlock Holmes.

E nel Fantasy? L’antieroe per eccellenza, almeno per un appassionato del filone Sword and Sorcery, non può essere che Solomon Kane: lo spadaccino puritano inglese del 1500 in viaggio per combattere senza tregua contro le manifestazioni del Diavolo. Il personaggio creato da Robert Ervin Howard sa essere incline a una fredda austerità quanto alla vendetta, ma non è amorale o impulsivo come Conan il Barbaro o brutale come Bran Mak Morn. Kane è guidato dalla fede, ed è nel suo nome che affronta pirati, mercanti di schiavi, fantasmi e malvagie civiltà perdute.

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Meno indottrinato di Solomon ma guidato anche lui da un proprio codice morale, c’è lo strigo Geralt di Rivia (di Andrzej Sapkowski, Editrice Nord). Strigo, appunto, in quanto soggetto a trasformazioni che hanno reso le sue capacità fisiche e mentali sovrumane. La società teme Geralt e i pochi come lui, ma a dispetto dei pregiudizi lui resta quanto più di verosimilmente “umano” e realistico si possa sperare di trovare in un Fantasy. Un guerriero che sa sfruttare anche cuore e cervello oltre alle sue lame, una d’argento per i mostri e una d’acciaio per i mostri veri, in un mondo dove la discriminazione, l’odio e l’arroganza non sono affatto diversi da quelli che possiamo riscontrare nella vita di tutti i giorni.

Sullo stile di Don Chisciotte, George R.R. Martin ha scritto le avventure di Ser Duncan l’Alto e del suo giovane scudiero Egg (Il cavaliere dei Sette Regni, Mondadori), protagonisti di “un mondo sfarzoso fatto di tornei, donne e cavalieri, in cui non mancano complotti e macchinazioni ma in cui c’è posto anche per un innocente eroismo”.

Tra gli antieroi a mio parere meglio riusciti, poi, torno a nominare Tyrion Lannister: il figlio nano, aberrante e sgradito a buona parte della casata Lannister (Il trono di spade, Mondadori) ma allo stesso tempo erudito e intelligentissimo. La scioltezza della sua lingua gli rende salva la vita tante volte quante sono le imprecazioni e le scene di nudo presenti nella serie (e a noi va benissimo così).
Il Folletto ha avuto un degno erede: Yarvi, erede al trono del Gettland nella Trilogia del Mare Infranto di Joe Abercrombie (Mondadori). Nato con una mano deforme che lo condanna a un’infanzia di derisione ed emarginazione in una famiglia di celebri guerrieri di un regno in continua guerra, Yarvi sceglie di dedicarsi all’apprendimento dell’arte del Ministrante per una vita più consona ai propri talenti. Anticiparvi che dovrà sfruttarli a ogni pagina mi pare il minimo.
E siccome di figli indesiderati è pieno il mondo, cito anche il principe Honorius Jorg Ancrath – per gli amici Jorg, anche se lui di amici non è che ne abbia molti – dell’autore statunitense Mark Lawrence (La trilogia dei fulmini, Newton Compton). Jorg ha meditato la vendetta per anni, fuggendo dal palazzo reale e vivendo per strada fino a diventare il capo di una spietata banda di fuorilegge. In un’intervista che ho rivolto all’autore, alla domanda «Perché una storia di cattivi?», Lawrence ha risposto di essersi ispirato ad Arancia meccanica di Anthony Burgess, nel quale un giovane uomo, seppure violento e amorale, cattura il lettore attraverso il proprio charme. Voleva dare vita a un personaggio altrettanto carismatico in un’ambientazione fantasy.
Un altro personaggio di quelli che “fanno andare il cervello prima della spada” è Elric di Melniboné, concepito dalla penna di Michael Moorcock (Editrice Nord). Di famiglia reale, albino, fragile, disilluso, Elric è l’ultimo imperatore, in linea di sangue, di un impero antichissimo che ha governato il mondo per millenni. Ma la sua gente ha ceduto all’indolenza, e la sola cosa che tiene a freno i popoli rivali è la leggendaria crudeltà dei melniboneani. Niente di più falso: lo stesso Elric è cagionevole di salute, di carattere mite e riflessivo, ed è tutt’altro che un colosso, ma ha il buon senso di ricorrere all’uso di pozioni magiche e ai poteri della sua spada, Stormbringer, per apparire come il dominatore temibile che dovrebbe essere.

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Riprendiamo il discorso della scorsa settimana e cerchiamo tra le donne qualche candidata a perfetta antieroina: una su tutte potrebbe essere Arya Stark: la sua famiglia sarà anche la più onorevole de Il trono di spade, ma il consiglio più prezioso che le abbiano dato resta: “infilzali con la punta”. E lei di nemici ne ha infilzati eccome! Vagando da un regno all’altro, aprendo la mente a nuove convinzioni, cambiando mestieri, identità. Ma senza dimenticare mai la vendetta. D’altra parte, la strada per diventare una seguace del Dio dei Mille Volti è ancora lunga, così come i tanti antieroi che sicuramente mancano a questo appello, o quelli che verranno.


Alfonso Zarbo vive a Lenno, sul Lago di Como. Ha cominciato a scrivere Fantasy nel 2008 e non ha più smesso, trasformando questa passione nel suo lavoro. Ha intervistato per Fantasy Magazine scrittori, illustratori, traduttori, ma anche musicisti e doppiatori. È stato curatore di antologie e collane per la piccola editoria. Ora gestisce i social network della collana Chrysalide di Mondadori ed è consulente sulla saga Il trono di spade. Lo trovate qui.


[SSdP] dall’inferno a Barad-dûr: l’Oscuro Signore

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– Edoardo Rialti –

Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul, Sergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.
 

Mentre voi nobili e potenti, siete per l’eternità i malvagi, i crudeli, i lascivi, gl’insaziati, gli empi, e sarete anche eternamente gli sciagurati, i maledetti e dannati!

Nietzsche, Genealogia della morale

Un uomo, o un diavolo…le cui mani arrivavano dove non arrivava la vista degli altri.

Manzoni, I promessi sposi

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Gustave Doré – Paradise Lost

Orrida maestà nel fero aspetto

terrore accresce, e piú superbo il rende:

rosseggian gli occhi, e di veneno infetto

come infausta cometa il guardo splende,

gl’involve il mento e su l’irsuto petto

ispida e folta la gran barba scende,

e in guisa di voragine profonda

s’apre la bocca d’atro sangue immonda.

È con quest’ottava su Satana del Tasso- che sembra quasi ispirarsi a un “mascherone giapponese”, come poteva notare solo il grande Mario Praz- che il Signore delle Tenebre diventa personaggio con piena statura drammatica nella poesia e nella narrativa. In effetti, tra i tanti tarocchi del fantastico, il Re del Male è forse uno dei più recenti, da un punto di vista letterario. L’archetipo folklorico-religioso certamente risale molto indietro (cfr. D. Dennett, Rompere l’incantesimo- la religione come fenomeno naturale). Ma è interessante notare che il mondo classico, a mia conoscenza, non conosce niente di simile. Nel mito greco, gli dei olimpi hanno ormai imposto una vittoria definitiva sui mostri del passato caotico; in quello norreno – per Tolkien più commovente proprio per questa intuizione esistenziale – incombe all’orizzonte la minaccia dell’ultima battaglia, dove ogni eroe e dio correrà ad affondare spada o ascia nelle fauci di un lupo o di un troll, distruggendosi a vicenda. Pure qui Odino non conosce un suo oppositore “morale” – se si eccettua Loki, che però ha il proprio indefinibile fascino proprio nella qualità di “trickster” che fa da spola tra i mondi (al pari di Joker, sua vera epitome nei fumetti e nei film – già nei “Lokasenna” aveva tutte le migliori battute).

Bisogna rivolgersi ad altri fiumi, confluiti nel mare del nostro immaginario: quelli delle narrazioni e delle visioni cosmiche proprie del vicino Oriente, politeista (il Seth egizio, patrono dei negromanti e acerrimo nemico del nipote Horus), dualista (l’Arimane persiano) e al progressivo crescere in statura del “Satàn”, l’accusatore biblico, che già nei vangeli diventa “il principe di questo mondo” – titolo che a me è sempre sembrato tenebrosamente bello. A ciò vanno sommati l’interiorizzarsi dell’epica allegorica tardo antica (pensiamo già alla Tebaide di Stazio), stoico-cristiana, così come lo spiritualizzarsi del guerriero barbaro, che diventa, in lungo processo, il cavaliere carolingio e arturiano (cfr. Alle radici della cavalleria medievale di F. Cardini), il miles Christi in lotta contro i pagani ma anche contro i loro padroni, le forze dell’inferno, e il loro Oscuro Signore. Appunto.

Nel nostro sommo Dante, tuttavia, «l’Imperador del doloroso regno» è una sorta di enorme macina del male, un raggelato, gigantesco mulino che mastica e piange sangue. Per Dante il vero male tragico è quello umano, e sono assai più drammatici e persino “luciferini” personaggi come Farinata o Capaneo. In Tasso, come abbiamo visto nell’ottava citata, fa davvero la sua comparsa un antagonista narrativo, che ordina, complotta, agisce, innescando un contro-movimento dal basso rispetto allo sguardo ordinatore e unificante di Dio dall’alto. Due prospettive che vanno a impattarsi, ruggendo e lacerando come tigri, nel mondo orizzontale dell’epica e della storia, nei dintorni di Gerusalemme (cfr. R. Bruscagli, Il campo cristiano della Liberata). È stato sempre merito di Praz aver notato, nella tenuissima variazione che Marino apporta alla descrizione del suo Satana, con quegli occhi in cui «mestizia alberga e morte» – il primo germe del “bello e dannato” che poi esploderà nel Satana oratore e condottiero di Milton, e in tanti eroi romantici, dai briganti di Schiller a Heathcliff, fino al «serpente scaltro», il principe Stavrogin di Dostoevskij. Una menzione a parte merita Macbeth, che diventa sempre più indistinguibile dai sortilegi che lo hanno sedotto, e dalla parola “paura”.

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Barad-dûr secondo Tolkien

Tuttavia, anche in questo caso, il prof. Tolkien ha fatto fare al fantasy un altro dei suoi salti quantici, quasi forgiando daccapo un archetipo. È suo infatti L’Oscuro Signore per eccellenza, Sauron di Mordor. Certo, anzitutto c’è Melkor-Morgoth, ma credo di non essere l’unico per cui Il Signore degli Anelli – non come titolo del libro, ma come personaggio – che pure costituisce un’eco in chiave minore del suo antico padrone, è rimasto ben più impresso nell’immaginario. Ma anche questa è una conquista-intuizione tolkieniana. Non esiste un unico signore oscuro. Ogni Era conosce il suo. Nelle sue lettere leggiamo una potente annotazione sul sortilegio irradiato dalla voce di Hitler. Con dolore vedeva i tedeschi «guidati ora da un uomo ispirato da un diavolo pazzo, vorticoso: un tifone, che fa assomigliare il povero vecchio Kaiser al lavoro a maglia di una vecchietta… la cosa strana circa l’ispirazione demoniaca è l’impeto che non riguarda per niente la statura intellettuale della persona, ma riguarda la sola volontà».

Come consigliava già Lovecraft, l’orrore più potente è quello che non si vede. Esattamente come la bellezza di Elena in Omero, che scorgiamo solo indirettamente dai visi rugosi e stupefatti delle «vecchie cicale», gli anziani di Troia – così anche il male è più spaventoso se solo accennato. A ciò Tolkien aggiunge un altro tocco, narrativamente superbo. Saranno sempre gli infinitamente piccoli, gli Hobbit, gli unici a relazionarsi direttamente con questo male infinitamente grande. I primi due incontri – seppure a distanza – sono quelli di Frodo stesso:

Ma lo Specchio divenne all’improvviso completamente buio, come se un abisso si fosse aperto sotto la sua superficie e lui guardasse nel vuoto. Nel nero baratro apparve un Occhio, uno solo, che crebbe lentamente, invadendo quasi tutto lo Specchio. Tale era il terrore che da esso sprigionava, che Frodo ne fu paralizzato, incapace di gridare o di distogliere lo sguardo. I contorni dell’Occhio erano di fuoco, mentre nel globo vitreo della cornea gialla e felina, vigile e penetrante, si apriva, nel buio di un abisso, la fessura nera della pupilla come una finestra sul nulla.

Lo sguardo dell’Hobbit fu irresistibilmente attratto verso oriente. Passò oltre i ponti in rovina di Osgiliath, oltre i cancelli spalancati di Minas Morgul, oltre le Montagne spettrali; spaziò su Gorgoroth, la valle del terrore nel Paese di Mordor, ove sotto i raggi del Sole tutto era immerso nell’oscurità. Un fuoco ardeva fra nebbie e fumo. Dal Monte Fato incandescente esalavano vapori. Infine il suo sguardo si arrestò: muraglie e muraglie, cinte e bastioni, nera, incommensurabilmente forte, montagna di ferro, cancello d’acciaio, torre d’adamante, egli la vide: Barad-dûr, la Fortezza di Sauron. Ogni speranza morì in lui. E improvvisamente percepì l’Occhio. Vi era nella Torre Oscura un occhio che non dormiva, che si era accorto dello sguardo di Frodo; e questi lo sentiva covare un cupido e selvaggio desiderio, e lanciarsi all’inseguimento, come un dito che frugava ovunque. Tosto l’avrebbe inchiodato, lì, nel punto preciso ove egli si trovava.

Ho sempre trovato quel passare dall’immensità della Torre e del paesaggio circostante- in un certo senso Sauron è il paesaggio di Mordor, così come incontriamo qualcosa di Galadriel già addentrandoci in Lothlorien – alla concretezza del dito, un altro colpo da maestro. La notazione sulla fusione di Sauron con l’ambiente meriterebbe un approfondimento: proprio come per Galadriel o Elrond, e persino per gli Hobbit con la Contea, Tolkien racconta continuamente la capacità di infondere volontà e personalità in un progetto, in un ambiente. E l’ammira. Nei suoi scritti distingueva tra la cecità nichilistica dell’ultimo Morgoth e il piano tirannico di Sauron, che, a suo modo, come i due giardinieri Sam e Aragorn, ha un’idea molto precisa di come coltivare il suo orticello.

È davvero un paradosso, e una notevole trovata narrativa, che l’unico dialogo diretto con l’Oscuro Signore non spetti però neppure Frodo – bensì al più casinaro degli Hobbit, Pipino. Ancora una volta, la concretezza, se volete l’ordinarietà dello scambio di battute, conferisce ancora più spessore e tensione. Che succederebbe, se un ragazzino incontrasse davvero un Hitler? Nessun proclama feroce, nessuna battuta memorabile. Solo una fretta bramosa.

«Poi venne lui. Non pronunciava parole, guardava soltanto, ed io capivo.
 -Così, sei tornato? Perché è passato tanto tempo senza che tu mi 
riferissi nulla? –
«Non risposi. Egli domandò allora: – Chi sei?. Continuai a tacere, 
ma mi sentivo straziare; e lui insisteva, tanto che infine dissi: – Un Hobbit.
«Allora parve che improvvisamente mi vedesse, e mi rise in faccia. Era 
crudele. Mi sentivo come trafitto da mille pugnali. Cercai di svincolarmi, ma lo udii esclamare: -Aspetta un momento! Ci rincontreremo presto. Di’ a Saruman che quel gingillo non è per lui. Lo manderò a prendere immediatamente. Hai capito? Di’ solo questo! – 
«Mi guardò con gioia perversa, e mi parve di essere tagliato in piccoli 
pezzettini. No, no! Non posso dire altro. Non ricordo più nulla».

Tuttavia stiamo sempre sbirciando Sauron dall’estero. Quando invece Frodo si infila l’Anello a Monte Fato, Tolkien ci permette di vedere il mondo dalla finestra stessa di Barad-dûr, e vivere i pensieri, e perfino i sentimenti del suo misterioso abitante:

Lontano da lì, quando Frodo infilò l’anello arrogandoselo, proprio a Sammath Naur, nel cuore del suo reame, il Potere fu scosso a Barad-dûr e la torre tremò, dalle fondamenta fino alla fiera ed orgogliosa cresta. L’Oscuro Signore fu improvvisamente conscio della presenza di Frodo, e il suo occhio, penetrando fra tutte le ombre, scrutò oltre l’altipiano la porta che egli stesso aveva costruita; l’enormità della sua follia gli fu rivelata in un lampo accecante, e tutti gli artifizi dei suoi nemici furono messi a nudo. Allora la sua collera avvampò come una fiamma divorante, ma la sua paura fu come un grande fumo nero che lo soffocava.  Conosceva il pericolo mortale in cui si trovava e il filo al quale ormai pendeva il suo destino. La sua mente abbandonò tutti i piani ed i tranelli intessuti di paura e di tradimento, tutti gli stratagemmi e le guerre, e da una parte all’altra del suo regno corse un brivido, i suoi schiavi indietreggiarono, i suoi eserciti si fermarono ed i suoi capitani si trovarono all’improvviso in balia del fato, privi di volontà, tremanti e disperati. Erano stati dimenticati. La mente e gli intenti del Potere che li comandava erano ormai concentrati con forza irresistibile sulla Montagna. Convocati da lui, precipitandosi con un grido lacerante, i Nazgûl volarono più veloci dei venti la loro ultima corsa disperata, e la tempesta di ali si diresse turbinosa verso il Monte Fato.

 Anche qui, non occorre sottolineare quello che qualunque lettore percepisce, al pari del brivido che attraversa le armate-: nel giro vorticante di poche frasi, vediamo secoli di progetti, schemi, e la mente che li coordina tutti e ciascuno. Sauron è anche il brivido di paura dei suoi servi, è anche lo strillo dei Nazgul. E al tempo stesso il suo mistero li supera, e resta.

Seppure brevemente, non posso non ricordare come, negli stessi anni della stesura del Signore degli Anelli, il grande sodale di Tolkien e fulcro degli Inklings, C. S. Lewis, nella sua trilogia di fantascienza teologica, ci offre in Perelandra un altro notevole ritratto del male diabolico. La soluzione narrativa è molto diversa da quella di Tolkien. Il “Distorto”, che possiede il cadavere dello scienziato malvagio al pari dell’antico serpente in Milton. qui addirittura sorride con le sue labbra morte:

L’essere guardò Ransom in silenzio e infine cominciò a sorridere. Spesso si parla di un sorriso diabolico, e anche Ransom l’aveva fatto, ma ora si rendeva conto di non avere mai preso sul serio queste parole. Il sorriso non era amaro o rabbioso, e neppure sinistro, nel senso abituale della parola; non era neanche un sorriso di derisione. Sembrava invitare Ransom, con un cenno di benvenuto orrendamente sincero, a prendere parte ai suoi piaceri, come se tutti avessero potuto condividerli, come se fossero stati la cosa più naturale del mondo e non fosse neppure il caso di discuterne. Non era furtivo, né pieno di vergogna, non aveva un’aria d’intesa. Non era una sfida alla bontà, la ignorava fino ad annullarla. Ransom si rese conto che, per quanto riguardava il male, aveva visto fino ad allora solo tentativi timidi e impacciati. Quell’essere si era dato al male con tanto accanimento da superare ogni conflitto e pervenire a uno stato che aveva una spaventosa somiglianza con l’innocenza. Era al di là del vizio, come la Signora era al di là della virtù.

Credo ci siano poche trovate così agghiaccianti come quel sorriso entusiasta.

Molti dei fantasy figli di Tolkien, negli anni 60-70-80, riprenderanno, anche nel caso dell’Oscuro Signore, la cornice, gli elementi esteriori più facili da ripetersi (non si contano i cappucci con gli occhi rossi che ardono nel buio senza volto…), ma senza quello spessore drammatico: basti pensare allo scialbo Signore degli Inganni di Terry Brooks. Meglio il Re Cornuto – sic! – della saga di Prydain. Il Sire Immondo di Stephen Donaldson aveva la bella trovata di accompagnarsi a un profumo più spaventoso del solito zolfo – «l’infame fetore lasciò il posto a un odore dolciastro di essenza di rose, l’odore dei funerali» – per poi però mettersi a tuonare minacce alfieriane come un basso da operetta: «Non mi fermerò, finché non avrò estirpato dalla terra ogni speranza. Pensa questo, e trema!» Pare di ascoltare un cattivo di James Bond, che spiega il proprio piano mentre la risata riecheggia per la volta e il buono ha tutto il tempo di slegarsi dalla sedia.

Tutt’altro livello è quello incarnato dal Randall Flagg di Stephen King, una sorta di re-stregone in giacca di pelle e stivaletti da cowboy. Al pari di altri grandi tarocchi dell’immaginario, anche qui King ha saputo sfoderare dal mazzo una delle sue più riuscite rielaborazioni in chiave contemporanea:

Aveva le tasche gonfie di cinquanta diversi tipi di volantini contrastanti. Retorica per tutte le stagioni. I suoi occhi parevano accesi della frenesia per le possibilità che offriva la notte… Era il viso di un uomo odiosamente felice, irradiava un calore attraente ed orribile insieme. Era un grumo in cerca di un punto dove manifestarsi, una solitaria cellula impazzita alla ricerca di una compagna: avrebbero messo su casa insieme allevando un tumore maligno.

Gli basta farcelo vedere camminare così, ai margine della strada, di notte, per poi librarsi misteriosamente da terra di mezzo metro. Il nostro sangue lo riconosce, come quando ci spaventava da bambini. L’Uomo Nero.

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Dobbiamo correre, e saltare, purtroppo. Gli anni ’90 conoscono soprattutto due straordinari cicli fantasy per ragazzi. Uno presenta un Signore Oscuro in perfetta conformità alla tradizione-seppure con dettagli interessanti-; l’altro uno straordinario ribaltamento-sdoppiamento di prospettiva. Harry Potter è, in fondo, la storia della lunga guerra tra due diversi orfani. Tom Orvoloson Riddle – alias Lord Voldemort – temuto fin da bambino come un paria sinistro, sarà sconfitto dal boy who lived, che lui stesso aveva – significativamente – privato dei genitori. Due bambini soli, all’origine del cui percorso stanno due scelte diverse del mondo degli adulti; se Tom era stato abbandonato, Harry viene salvato proprio dal sacrificio della madre. Nella grande trilogia materialista Queste oscure materie, invece, abbiamo un Sauron rappresentato da Lord Asriel, che aduna tutte le forze ribelli dell’universo intorno alla sua fortezza prometeica:

Sul bastione più alto della fortezza c’era una torre di diamante: una sola rampa di scale portava a una serie di stanze le cui finestre guardavano a nord, a sud, a est e a ovest.

Ma non occorre molto perché il lettore si accorga che il vero Oscuro Signore è l’Autorità stessa- colui che da sempre si è spacciato per Dio e il suo reggente Metatron – «mi domando se lui riesce a vedere attraverso le nuvole», ci si chiede con timore, come per l’Occhio di Sauron – e che Asriel invece, con la sua “empia” superbia, è invece l’Aragorn pronto a morire perché la giovane protagonista possa davvero sferrare il colpo decisivo al tirannico Regno dei Cieli:

Tutti sappiamo cosa dobbiamo fare noi, e perché dobbiamo farlo: dobbiamo proteggere Lyra fino a quando non avrà ritrovato il suo daimon e la salvezza. La nostra repubblica può essere stata creata al solo scopo di aiutarla.

Almeno una Oscura Signora va citata come si deve – in attesa di scrivere più adeguatamente sulle Regine delle Tenebre, cui va il mio baciamano: anche Joe Abercrombie in Mezza Guerra, al momento di presentarci la sua perfida Gran Madre Wexen, riecheggia sia Sauron che Oz, svuotando gli stereotipi dall’interno:

Una donna anziana si trovava al parapetto di metallo elfico, indossando una tunica che arrivava al pavimento, i capelli bianchi tagliati corti, con alle spalle una grande pila di libri, dalle costole vergate d’oro, incastonate di gemme.

«Gran Madre Wexen!» vociò Yarvi. Lei si bloccò, le spalle incassate, per poi voltarsi lentamente.

La donna che aveva regnato sul Madre Infranto, deciso le sorti di innumerevoli migliaia, fatto tremare i guerrieri e usato i re come fantocci, non era affatto come Koll si aspettava. Non era una cattiva dalla voce chioccia. Né un essere malvagio, alto come una torre.

Non un “Towering evil”, appunto. «Solo un viso materno, rotondo e profondamente segnato. D’aspetto saggio. Cordiale. Senza segni sfarzosi del proprio alto stato». E quando il “buon” Yarvi latrerà «Tu non hai idea di cosa ho sacrificato, di quello che ho sofferto! Non hai idea delle fiamme in cui sono stato forgiato», capiamo che quelle stesse parole avrebbe potuto pronunciarle lei, anni prima. E che abbiamo visto che dietro la nascita di un “mostro” possono esserci pregi, speranze, e dolori.

Anche R. K. Morgan vuole esporci a qualcosa di altrettanto provocatorio, col suo Illwrack SenzaFamiglia, il rampollo umano cresciuto come changeling dai suoi “Elfi”- ma saranno davvero tali?- bellissimi e crudeli, gli Aldrain:

Il SenzaFamiglia, allora, venne scelto da un giovane rampolo Illwrack più o meno quando era ancora nella culla. Sembra che il bambino fosse così bello che il nobile Aldrain rimase incantato suo malgrado. Si innamorò con tutta l’impulsiva passione della sua gente e, senza che nessuno potesse impedirglielo, attese il breve passaggio della giovinezza umana per guidare e ammaestrare il ragazzo in tutto quello che avrebbe dovuto sapere e vedere, quindi lo prese e lo condusse oltre la Porta oscura, nonostante fosse più giovane di qualsiasi uomo preso dagli Aldrain. Gli donarono i poteri quando era ancora un adolescente, legandolo indissolubilmente alla fredda legione. Deve essere stato un colpo per lui, come dice la leggenda, ricevere tali poteri. Ma si dice che gli occhi del SenzaFamiglia fossero verdi come i raggi del sole attraverso il fogliame degli alberi, e il suo sorriso, seppure ancora di un bambino, poteva scioglierti il cuore.

Ringil, il protagonista, alla scoperta che «il nome dell’aristocratico Aldrain è andato perduto», ha uno spasmo. Perché anche lui è stato amato dall’Aldrain Seethlaw, venendo iniziato alla magia nera. E nessuno capisce se quella leggenda si riferisca solo al passato, o anche al futuro. Tutta la trilogia di Morgan ruota sulla possibilità che Ringil possa diventare Illwrack, e quando il re oscuro effettivamente torna delle acque nere dei Luoghi Grigi, strillando come un gabbiano, le prime parole che pronuncia non sono minacce di morte e di conquista, ma un semplice «Torno a casa, Seethlaw». La stessa frase mormorata, sognata, custodita dai tre protagonisti dei romanzi, tre diversi esuli, la stessa che Ringil non può pronunciare, perché quella porta è tragicamente chiusa alle sue spalle, e l’unico amore lo attende tra le braccia di un principe gitano, al crocevia elusivo di tutti i mondi possibili, una dimensione dove forse si incontrano solo schegge di un passato lontano, o di un futuro ancora a venire. Anche nella ferocia di un Oscuro Signore può dunque celarsi lo stesso sogno d’amore e di condivisione, che mormoriamo all’orecchio della persona amata, quando finalmente possiamo baciarla dopo tanto, troppo tempo, come un segreto solo nostro, come una promessa finalmente mantenuta.

Tutto questo ci permette di tornare a Tasso. Perché quello stesso gigantesco orco-pipistrello che abbiamo visto ruggire, sa ancora evocare ai sui demoni un passato di grazia, bellezza, e ardimento:

Ah! non fia ver, ché non sono anco estinti

gli spirti in voi di quel valor primiero,

quando di ferro e d’alte fiamme cinti

pugnammo già contra il celeste impero.

Fummo, io no ‘l nego, in quel conflitto vinti,

pur non mancò virtute al gran pensiero.

Diede che che si fosse a lui vittoria:

rimase a noi d’invitto ardir la gloria.

“Diede che che”: è capitato che Lui vincesse. Ma poteva andare diversamente. Forse. Davvero, come ricordava Abercrombie, ogni eroe è il mostro di qualcun altro. Per George Steiner, gli eroi tragici “procedono verso il loro solenne destino, prigionieri di verità che oltrepassano la conoscenza”. E chi è più tragico, in questo senso, dei grandi antagonisti, mentre incedono verso la sconfitta? Forse. Diede che che. In fondo, nella loro forza, nel loro coraggio, serpeggia fino a noi una domanda scomoda: Perché essere il buono, quando ci sono così tanti motivi giusti per essere il cattivo?


Edoardo Rialti è critico letterario de “Il Foglio”, dove ha pubblicato le biografie letterarie di G. K. Chesterton (L’uomo che ride), C. S. Lewis (Un’infinita sorpresa), J. R. R. Tolkien (La lunga sconfitta, la grande Vittoria) e, proprio in queste settimane, C. Hitchens (Prometeo). Ha insegnato Letteratura Comparata in Italia e in Canada. È traduttore di letteratura inglese, fantasy, horror e sci-fi per Mondadori, Rizzoli, Gargoyle, Lindau, Marietti. Ha tradotto Joe Abercrombie (Il Sapore della vendetta e La Trilogia del Mare Infranto), C. S. Lewis, P. Brown, W. Shakespeare, O. Wilde.


[SSdP] Non sai niente, Jon Snow

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– Sergio Vivaldi –

Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul, Sergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.
 

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Barbari e fantastico, un binomio consolidato. Molti dei più grandi capolavori ne includono almeno uno/a e fin dalle origini il barbaro è considerato un archetipo della letteratura di genere. Ma per parlare di barbaro e di barbari è fondamentale partire dall’inizio, da quando ancora la parola barbaro non esisteva, dall’Epopea di Gilgameš di Uruk.

Padre, c’è un uomo, da ogni altro dissimile, che è sceso dalle colline. Egli è il più forte del mondo, è come un immortale dal cielo. Vaga sulle colline con le bestie selvatiche e si nutre di erba. Ho paura e non oso avvicinarmi a lui. Egli riempie le fosse che scavo e divelle le trappole che colloco per le mie prede; aiuta le bestie a fuggire e ora esse mi sfuggono fra le dita.

L’epopea di Gilgameš. La venuta di Enkidu. A cura di N.K. Sanders, traduzione di A. Passi.

Enkidu è destinato a diventare il compagno di avventure di Gilgameš, l’uomo inviato dagli dèi per essere suo pari. Enkidu è anche la prima rappresentazione del barbaro in letteratura, fatto in sé straordinario non solo perché parte della prima narrazione scritta dell’umanità – l’epopea di Gilgameš, appunto – ma anche perché, come detto, nasce qualche millennio prima della stessa parola barbaro. Il concetto nasce in epoca ellenica per definire tutti popoli non-ellenici, membri di una cultura diversa e inferiore. La simbiosi tra Enkidu e il mondo animale, priva di qualsiasi forma di civiltà, è unica nel suo genere. Corre con gli animali, vive e si nutre come loro. È un uomo nel fisico, e viene riconosciuto come tale, ma il suo comportamento è inspiegabile secondo i canoni del cacciatore membro di una società evoluta. Questa identificazione è parte di tutta la cultura, letteraria o meno, nei millenni successivi. Il concetto greco di barbaro è stato assorbito dai Romani per identificare le popolazioni al di fuori dei loro domini, e poi di tutto il mondo cristiano, che ha usato lo stesso concetto per differenziarsi dalle popolazioni non cristianizzate.

Nel corso dei secoli il barbaro letterario rimane più o meno invariato  fino all’epoca illuminista, per quanto anche in questo periodo il messaggio sia incentrato sulla superiorità della civiltà occidentale. Il buon selvaggio, e su tutti si ricorda il personaggio di Venerdì di Daniel Defoe, è di fatto una rappresentazione della superiorità della razza bianca sul selvaggio non civilizzato.

conanbarbaro

Solo nel ventesimo secolo il personaggio cambia, acquistando una consapevolezza del suo ruolo al confine tra culture diverse. Questo avviene già con Conan il Barbaro, personaggio di Robert Howard. Nel costruire questa figura iconica l’autore riprende alcuni dei temi classici del selvaggio sia sul piano culturale – la  comunione con le forze naturali, le capacità di combattimento – sia sul piano estetico – il vestiario di pelli di animale, il corpo scolpito all’esagerazione e così via. Sotto molti punti di vista questi aspetti lo rendono simile a Enkidu, con la grande differenza che Conan non ne viene mai privato. Howard non tenta mai di inserirlo in una società, di “educarlo” per farlo uscire da quello stato di comunione col mondo animale. Al contrario, l’essenza stessa di Conan è così libera e completa nel suo stato barbarico da ricevere il riconoscimento della natura, del destino e della trama stessa della realtà. È questa la caratteristica fondamentale dell’epica di Conan, che in questa accezione diventa sinonimo di libertà. Nessun ostacolo è troppo arduo, nessuna impresa impossibile, Conan è una forza superiore a qualsiasi concezione umana pur rimanendo umano e mortale, ed è proprio questa sua caratteristica che le forze immateriali gli riconoscono quando si piegano al suo servizio.

L’eredità di Conan in letteratura è ampia, molti autori hanno ripreso il personaggio e ne hanno arricchito il mondo e, vista la natura transmediale del fantastico, il passaggio al cinema è stato naturale. Uno dei tanti esempi cinematografici è notevole perché rovescia in modo inaspettato il concetto del barbaro visto finora, Conan il Barbaro di John Milius. Pur mantenendo l’approccio epico di Howard, la narrazione per immagini permette di creare una rappresentazione diversa e l’interpretazione di Schwarzenegger è, nella sua semplicità, magistrale. Le scene in cui Conan descrive il simbolo del serpente a due teste di Thulsa Doom sono particolarmente efficaci nel rafforzarne l’immaginario: vestito di pelli, busto nudo, muscolatura possente, rappresentazione a gesti del simbolo mentre il compagno usa le parole, un volto all’apparenza selvaggio, incivile e rabbioso. Eppure Conan è stato educato e quindi avrebbe le capacità dialettiche di descrivere il simbolo. Il grande rovesciamento di significati lo si vede nel ruolo di Conan, del suo piccolo gruppo e di Thulsa Doom. Milius e dà una connotazione politicamente destrorsa al film: Thulsa Doom è lo stregone – nero – che rende orfano Conan e impone il suo dominio sulla popolazione con una religione assoluta di cui Doom è, di fatto, la componente divina. Il potere esercitato sulle persone è assoluto. A causa della sua crudeltà Conan – bianco – viene reso prima orfano e poi schiavo. Una volta libero e in cerca di vendetta forma un trio di improbabili eroi composto da Conan stesso, Subotai, un ladro dai tratti fisici orientali, e Valeria, una donna guerriera – bianca e bionda come una Valchiria. L’epica di Conan in Milius si trasforma in una esaltazione della razza bianca in contrapposizione al potere assoluto dell’imperatore nero e malvagio, senza che il “bianco” rinunci mai alla sua identità di barbaro, fino a quel momento prerogativa delle altre razze, come nel caso di Venerdì e Crusoe.

Con Howard il Barbaro è diventato prerogativa del fantastico moderno ma si è rapidamente trasformato in un cliché. In tempi recenti sono stati esplorati altri aspetti del singolo personaggio, riprendendo in parte il tema dell’incontro tra il barbaro e la civiltà, concentrandosi però sui cambiamenti che questo incontro ha generato. Tra i tanti, Joe Abercrombie e Richard Morgan ne hanno costruito un’immagine originale. Nella Prima legge di Abercrombie Logen Novedita presenta alcuni degli archetipi visti finora: guerriero straordinario, ottimo compagno di avventure, leader naturale e collante di un gruppo altrimenti eterogeneo e difficilmente amalgamabile in un’unità coesa. Nonostante queste qualità, Logen rimane un barbaro: è difficile per lui comprendere a fondo i suoi compagni e viceversa. Inoltre, per quanto venga emarginato solo in società ma mai all’interno del gruppo, la fiducia reciproca rimane debole, frutto di un’incomprensione culturale prima ancora che personale o caratteriale. A questo si aggiunge l’umorismo amaro di Abercrombie che dona a Logen una seconda personalità, il Sanguinario. Quando il Sanguinario prende il sopravvento entra in uno stato di trance da battaglia, non è più responsabile delle proprie azioni, non riconosce nemici e alleati e si trasforma in una macchina di morte senza distinzioni. La versione socievole e cameratesca di Logen ispira simpatia ai compagni, ma quando è il Sanguinario a comandare, la diffidenza, il disgusto e l’odio che la civiltà gli riversa contro sembrano insufficienti a confronto della scia di morte alle sue spalle.

In Una terra per eroi di Richard Morgan uno dei protagonisti è Egar Rovina del Drago, ex mercenario al servizio dell’impero e capoclan Majak. Quando Egar, negli eventi antecedenti al primo volume, si arruola come mercenario, la sua origine Majak lo fa diventare bersaglio di discriminazione all’interno dell’Impero ma contemporaneamente gli mostra un mondo agli antipodi rispetto alle sue origini e che inevitabilmente lo cambia. Al suo ritorno, anche nel ruolo di capoclan, verrà discriminato dagli stessi Majak, che lo accusano di aver perso l’identità tribale. La civiltà priva quindi Egar di un qualsiasi senso di appartenenza, discriminato dall’Impero per essere Majak e dai Majak per aver perso le sue origini, ponendolo in un limbo dal quale non uscirà mai per tutto il corso della trilogia. L’unica identità che gli rimane, ormai sbiadita nella memoria degli eventi, è quella di Rovina del Drago, ma la guerra è lontana e molti hanno dimenticato le sue gesta eroiche.

Una seconda tendenza nel fantastico moderno è quella di inserire popolazioni barbariche, come nel caso di Morgan, ma dando loro un ruolo più centrale alla narrazione. È il caso di George Martin, che include due popoli diversi, i Dothraki e il Popolo Libero. I primi sono gli abitanti di una steppa arida, non dissimile dai Majak e la cui fonte di ispirazione sono probabilmente gli Unni che invasero l’Europa intorno al IV secolo. Vivono dell’allevamento e del commercio dei cavalli e di conseguenza hanno una natura nomade. Parte della loro cultura, così come viene presentata al lettore dopo l’incontro tra Khal Drogo e Daenerys Targaryen, sono una serie di rituali particolarmente cruenti. Tra i tanti, i festeggiamenti per un matrimonio sono piuttosto animati – del resto, un matrimonio senza almeno tre morti è piuttosto noioso – e la dieta delle future madri deve essere ricca di proteine. I Dothraki sono una popolazione frammentata che vaga nel suo nomadismo per tutta la pianura, ogni gruppo si raccoglie intorno a un capo e spesso si verificano scontri, omicidi e vendette portate avanti per generazioni tra i membri dei vari gruppi.

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Il Popolo Libero vive tra i ghiacci del nord, oltre il Muro, anche in questo caso una popolazione frammentata in decine di fazioni spesso in lotta fra loro e con una cultura carica di superstizioni e miti molto lontani dai Sette Regni. La grande distinzione con i Dothraki è la lotta perpetua per varcare la barriera che li divide dai Reami e prendere possesso di una parte delle terre, più fertili e più sicure proprio per la presenza del Muro. La discriminazione nei confronti dei selvaggi del nord è spietata e tutti i popoli residenti “dalla parte giusta” del Muro non esitano a definirli dei selvaggi sanguinari e violenti, dando grande valore al lavoro dei Guardiani della Notte, il cui unico scopo è tenere lontano il Popolo Libero – Estranei permettendo. Come Daenerys con i Dothraki, anche in questo caso un personaggio, Jon Snow, futuro comandante “illuminato” dei Guardiani, diventa il punto di vista del lettore in mezzo a questa cultura aliena. Dopo aver incontrato il “nemico” Jon ne riconosce il valore al di là delle incomprensioni culturali e dell’odio millenario che divide le due fazioni, processo velocizzato dalla relazione con Ygritte ma già presente e basato sul rispetto cameratesco dei singoli individui. Il Popolo Libero non è privo di cultura e vive secondo regole dettate dal territorio e dai pericoli che lo circonda. E a nessuno di loro piace, come Ygritte gli fa spesso notare ripetendo allo sfinimento quel «Non sai niente, Jon Snow».

Nella storia recente della letteratura fantastica sono due le popolazioni barbariche più note. La prima sono i Nadir di David Gemmell, comparsi per la prima volta nel 1984 con La leggenda dei Drenai. I Nadir sono un popolo nomade di allevatori di cavalli, diviso in molte fazioni spesso in guerra tra loro ma che occasionalmente si raccolgono intorno a un capo e tentano di conquistare l’impero Drenai. Sono il popolo più simile agli Unni, provenienti dall’est Europa e di origine mongola. Proprio come gli Unni, i Nadir hanno tratti somatici orientali, occhi leggermente a mandorla e pelle ambrata. L’ambiente originario dei Nadir è molto simile alle steppe dell’est Europa e la struttura sociale è simile a quella di tante popolazioni nomadi di quelle zone. Per quanto l’odio tra Drenai e Nadir sia palpabile, sedimentato in secoli di schermaglie e invasioni tentate, il leader della resistenza Drenai, Druss la Leggenda, il loro più grande guerriero, ha un profondo rispetto per le capacità militari dei “barbari invasori”, sentimento reciprocato dai Nadir. Druss, pur paladino dell’Impero, non è il guerriero civilizzato che sarebbe lecito attendersi, ha vissuto a lungo in aree selvagge e in modo non dissimile da quello dei Nadir, è stato reso schiavo e ha ucciso per vendetta. È, in essenza, più simile agli invasori che agli invasi. L’epica del personaggio è dimostrata non solo dai racconti ma dalla resistenza a oltranza durante l’assedio, e proprio nel valore epico delle sue imprese presenti e passate si rivela la bontà del lavoro di Gemmell: senza una umanizzazione del nemico-barbaro i Nadir sarebbero poco più che orchetti di tolkeniana memoria, privi di qualsiasi interesse e intenti solo alla distruzione totale. Il loro desiderio di conquista, di ottenere nuove terre e nuove ricchezze e di combattere con valore e acume militare non è solo umano ma anche ciò che li differenzia da un orda priva di scopo. E il riconoscimento doveva arrivare dal più grande guerriero del racconto, perché solo il suo giudizio è abbastanza autorevole per rivalutarli. I Nadir brillano di una umanità riflessa dalla grandezza epica di Druss, un bilanciamento sottile, insufficiente a eliminare l’identità barbarica ma che ne riconosce il valore.

Fremen

Il secondo popolo sono i Fremen di Dune. L’ambiente nel quale vivono li costringe a uno stile di vita estremo ma proprio per questo sono in sintonia con il pianeta più di qualsiasi altra popolazione fin qui menzionata. L’insieme di tecnologia e regole di vita necessarie alla sopravvivenza li rendono l’esempio più simile all’Enkidu selvaggio, le loro tute distillanti sono un concentrato di praticità e spirito di adattamento, un ruolo mai compreso dai dominatori Harkonnen e dall’imperatore. La capacità dei Fremen di mimetizzare la loro civiltà con l’ambiente, di avere un impatto nullo sul pianeta, nasconde persino il numero totale della popolazione, fattore che coglierà di sorpresa le forze imperiali. E questo perché l’adattamento al pianeta è totale, una simbiosi così profonda da rendere i Fremen superiori a chiunque nel loro ambiente. Solo una causa moralmente superiore, il Jihad, permetterà di spezzare questa simbiosi spingendo le truppe Fremen alla conquista di altri pianeti. E non è un caso se i Fremen e Arrakis stesso precipitino verso il disastro quando due processi iniziano a verificarsi in contemporanea: da una parte, la contaminazione culturale della civiltà degli altri pianeti, lontanissima da Arrakis perché nessun pianeta presenta le stesse caratteristiche climatiche, e i cambiamenti ecologici apportati artificialmente mettono in pericolo l’esistenza dei Vermi e portano al collasso l’intero ecosistema. D’altra parte, sostenere che la cultura Fremen sia inferiore a quella degli altri pianeti è errato. La base culturale è costituita, come su tutti gli altri pianeti, da religione, regole, leggi e rituali ben definiti, e solo grazie a queste Muad’dib può iniziare il Jihad. La grande differenza, ancora una volta, è l’ambiente che obbliga a mantenere queste tradizioni per garantire la sopravvivenza.

Da tutti questi esempi è evidente che il ruolo del barbaro nella letteratura fantastica è molto più complesso di quello di un guerriero epico. L’approccio è in apparenza lo stesso della tradizione ellenica del barbaro come creatura incivile, e per sua natura portatore di conflitto nella società, ma col tempo il barbaro è diventato uno strumento per sottolineare le incongruenze della società “superiore” e per rimettere in discussione l’intero concetto identitario ellenico, rimasto invariato nella società per millenni. Una volontà totalitaria, come quella del Jihad o dei Drenai, ma anche la forma di emarginazione culturale subita da Egar e, in misura minore, da Logen sono espressioni di una negazione della diversità, trasformando il barbaro e la sua narrativa epica in una drammatizzazione di tutti gli scontri che hanno formato la storia dell’umanità, ovvero tra assoluto e diversità, tra stasi e cambiamento.


Sergio Vivaldi. Laureato in Comunicazione e Studi Culturali, ha scoperto il fantastico da bambino e non lo ha più lasciato, ma è stato contaminato molto presto da Vassalli, Buzzati e Borges. In qualche modo, ha fuso queste influenze con i suoi studi e ha imparato a credere che non succeda mai niente di nuovo sotto il sole. Esistono semplicemente nuovi soli.
Lo si trova su Portal Of Dreams.


[SSdP] Domestici, non addomesticabili. Anatomia dei folletti per principianti

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– Francesca Matteoni –

Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul, Sergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.

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Pascal Moguérou, Folletto

 

Su per le cime ventose,
o giù nelle forre di giunchi,
noi non osiamo cacciare
temiamo i piccoli omini;
minuscoli esseri buoni,
che tutti assieme se n’vanno;
verde la giacca, rosso il berretto,
e bianca la penna di gufo!

WILLIAM ALLINGHAM

Folate di vento: origini, nomi e apparenze

Folletto, follia, folata di vento, natura instabile e infine… spirito fanciullesco. E come il vento e la follia, non si possono davvero afferrare, incasellare e mettere a posto una volta per tutte, i folletti. Si può però cominciare da questo fallimento, spiegando che la difficoltà di classificare i folletti deriva dal loro vivere ovunque – non esiste popolo terrestre che non abbia il suo folletto, così come non esiste popolo che non pianga o tema i suoi morti prematuri o che riconosca negli eventi e nelle bizzarrie della natura un’intelligenza altra, con un proprio ordine morale per quanto capriccioso. Ipotizzando una rapida categorizzazione dei folletti questi si dividono in

1. spiriti della terra

2. esseri mutanti, residuali, ultima traccia di popoli scomparsi

3. numi tutelari della casa collegati al culto degli antenati

4. bambini morti o mai venuti al mondo

Le quattro categorie si mescolano l’una nell’altra, confondendo i tratti dei folletti selvaggi con quelli dei loro simili domestici. Così il Brownie scozzese, mite spirito della casa, può trasformarsi nello scontroso Boggart correndo via nelle brughiere. E chissà se Stevenson non ne trasse ispirazione, scrivendo del buon Dottor Jekyll e del suo irrefrenabile, amorale alter ego, Mr Hyde. Tenendo conto di queste diverse origini si può provare a tratteggiare la fisionomia del folletto. Di piccola statura, ma non minuscolo, alto poche decine di centimetri o come un infante; ha pelle verde oppure brunita dal sole; il viso solcato da rughe profonde oppure ingenuo e beffardo come quello di un ragazzino; arti spropositati e incongruenze fisiche, quali orecchie lunghe, naso eccessivamente camuso, bocca larga, ma anche assente, come in stranissimi folletti dei mulini, piedi caprini; nudo e peloso oppure coperto di stracci variopinti e immancabile berretto. A quest’aspetto di mendicante giullaresco si contrappone il Leprecauno irlandese, irascibile e vestito di tutto punto, uno dei pochi della sua specie ad avere una professione – è un ciabattino, ma sa aggiustare solo una scarpa per volta. Ha un tricorno, scarpe con tacco e fibbia, giacca di velluto e calze di lusso ed è proprio lui il guardiano della pentola d’oro che appare alla fine dell’arcobaleno.

claudine roland sabatier
Claudine e Roland Sabatier, Folletto acquatico

Ciò che accomuna tutti i folletti è l’emergere di caratteri contrastanti nelle loro persone: vecchissimi e imberbi, appassionati fino a perdere la ragione e custodi di segreti. Restando solo in Europa e provando a nominarne alcuni troviamo i pixie inglesi; gli spriggan della Cornovaglia; i trow delle Orkney e delle Shetland; i lutin francesi; il domovoj slavo; il nisse o tomte scandinavo; i kallikantzaroi greci, sinistramente legati al Natale; il coboldo germanico e in Italia da Nord a Sud, servan delle Alpi che badano ai pascoli, salvanelli veneti, baffardelli dispettosi della Garfagnana, munacielli campani, addobbati proprio come piccoli frati rubicondi, farfareddi siciliani. Pierre Dubois negli anni Novanta del secolo appena concluso ha compilato un’enciclopedia mondiale dei folletti, spaziando fino al Sud America e alle profondità oceaniche e accompagnato dalle illustrazioni di Claudine e Roland Sabatier, una mescolanza riuscita di tratti grotteschi e buffi, da cui possono spuntare, per lo sgomento dell’osservatore, lame, artigli, bocche dentate niente affatto incoraggianti.

Definiti spesso dalla domesticità, quali spiriti guardiani della casa o delle attività umane, lo sono altrettanto dalla morte: un’esistenza da folletto è infatti il destino dei bambini scomparsi prematuramente e ancora legati alla dimensione terrena. Per questo spesso si aggirano nelle case, pur restando ribelli e imperscrutabili, vagano nei luoghi che hanno conosciuto, ne divengono i protettori… oppure i persecutori degli umani che vi risiedono. La loro origine spiega anche l’antica saggezza dietro i volti infantili: mantengono infatti l’aspetto che avevano nel mondo umano, ma possono vivere per secoli. La fonte più ricca sul rapporto fra morte, bambini e spiriti-folletto è ancora The Nordic Dead Children Tradition, tesi di laurea del professore finlandese Juha Pentikäinen, pubblicata alla fine degli Anni Sessanta. Introvabile, la si può consultare nelle biblioteche: ho sperato molto, quando mi persi dentro questo libro nella British Library, che un qualche folletto bibliomane e di indole affabile, lo trasferisse magicamente nella mia borsa giù al guardaroba! E, per smentire chi pensa di relegare i folletti a un insignificante argomento folklorico, occorre ricordare che il folklore nasce quasi sempre dalle più profonde, insanabili angosce umane.
L’incomprensione, per non dire il rifiuto, provato davanti a bambini affetti da qualche forma di disabilità, trova voce nel mito del changeling, il folletto messo dalle fate mettono nella culla al posto dell’umano, che portano via per rinvigorire la loro stirpe crepuscolare. L’autismo, le disabilità, i problemi della sfera del linguaggio potevano essere interpretati ricorrendo a una formula brutale: “Gli assomiglia, ma non è figlio mio”. Dalla credenza ai fatti: non abbondano, eppure sono presenti nei documenti storici, casi di infanti affogati, abbandonati nel bosco a morire, nella speranza folle delle madri, dei padri, delle nonne di riavere il bambino originale, sicuramente rapito da creature ultramundane. A livello simbolico il bambino scambiato, mutato in folletto, mostra le ansie dei genitori, degli adulti davanti a quanto esula dalla cosiddetta norma, davanti soprattutto alla novità e la stranezza incarnate nell’ignaro che viene al mondo1.

Manifestazioni della natura o dei morti, delle turbolenze dell’infanzia o dell’adolescenza, di popoli raminghi nel sottobosco, i folletti sono quel qualcosa di meraviglioso e perduto che ricerchiamo, che ci sembra di aver intravisto un giorno, proprio lì, tra la luce fioca sul comodino e le ombre feroci proiettate sulle pareti, tra l’uscio di casa e il prurito dell’erba. A frotte o solitari, come avrebbe scritto William Butler Yeats, vestiti di verde o con cappucci rosso sangue, escono dagli enigmi del quotidiano, pura sostanza magica per chi crede che nulla è certo, che sui bordi dell’esistenza si annidano i corpi sgraziati, indomabili, danzanti delle nostre immaginazioni.

Trasformazioni letterarie: la romanticizzazione di Puck

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Arthur Rackham, Il mercato dei folletti

Katherine Briggs è un nome noto a chiunque si sia avventurato tra fate, spiriti silvani e folletti. La grande folklorista inglese è colei che ha trattato in maniera dettagliata e soprattutto mirata, di queste creature che dimorano sui confini, dove la luce è pallida e soffusa, ma non si arrende al buio, dove si incontrano capriccio e desiderio, fatalità e malinconia. Proprio ispirandosi alla malinconia e alla sua lunga fama nell’Inghilterra moderna, ha scritto The Anatomy of Puck, che parafrasa il capolavoro seicentesco di Robert Burton, The Anatomy of Melancholy. La somiglianza risiede proprio nella varietà degli aspetti della strana malattia – che a volte malattia non è, ma eccesso d’amore o d’immaginazione, solitudine dello studioso – che corrispondono alle molte variabili in forma e sostanza dei parenti del personaggio shakespeariano. Dall’animalesco Pan all’imprendibile Puck, da Puck fatto di sogno ad alcuni folletti di secoli recenti su cui mi interessa fermarmi, l’indole volubile dello spirito lascia emergere stati d’animo e languori tutti umani, che dalla sfera sociale si spostano in quella intima e personale. Penso a Trilby, il folletto d’Argail raccontato da Charles Nodier nei primi decenni dell’Ottocento, un vero e proprio eroe romantico innamorato di un’umana, padrona della casa dove dimora.
La domesticità del folletto si rinnova in un vincolo affatto diverso dai precedenti: non trasformazione di una vita trascorsa e conclusa o legame di sangue improvvisamente reciso con chi vi abita, ma un’ossessione che fa di Trilby un infelice cantastorie. È Trilby l’antenato del Munaciello di Napoli di Anna Maria Ortese, che si rifugia dentro un armadio e conduce, come tutti i munacielli, una vita dissennata quando non è impegnato a far dispetti in casa. È di fondo tuttavia uno spirito incompreso, più adolescente (sebbene chissà da quanti decenni), che creatura di un vicino altrove. Ma gli adolescenti non sono loro stessi una terra altra, inesplorabile, sebbene tutti l’attraversiamo?

Giovane e inquieta è anche una delle due protagoniste del poemetto di Christina Georgina Rossetti, The Goblin Market, Il mercato dei folletti, scritto nella primavera del 1859.

“Non dobbiamo guardare i folletti
Non dobbiamo comprare i loro frutti
Chissà su quale terreno nutrirono
Le loro avide radici fameliche?”
“Vieni e compra”, chiamano i folletti
Zoppicando giù per la valle.

Dice Laura alla sorella Lizzie, ma è poi lei stessa a cedere, comprare i frutti, mangiarne. Ed è noto: mangiare il cibo delle fate è come mangiare il cibo dei morti, esserne gradualmente consumati mentre si è vivi. Niente più la sazia, niente la rallegra: cade in una febbre fatale da cui solo il sacrificio e l’amore di Lizzie riescono infine a salvarla. I folletti sono qui piccoli demoni tentatori, una passione frenetica che non alimenta, ma divora.

Al principio del Novecento, grazie a Rudyard Kipling ricompare la nostra vecchia conoscenza shakespeariana nel libro Puck of Pook’s Hill (La collina di Puck), dove lo spirito ha dismesso i panni del servitore poco affidabile della corte fatata e perfino certe sue abitudini da monello. Ultimo rimasto della sua stirpe, giura sulla Quercia, il Frassino e il Biancospino, e dice di sé stesso di essere «la cosa più antica d’Inghilterra». C’è in questo nuovo Puck sia una chiaro sentimento del paesaggio e della terra, che quel mito della Vecchia Inghilterra, di un vagheggiato, tradizionale mondo rurale e armonico, mai davvero esistito, ma non per questo meno attraente, che costituisce uno dei capisaldi dei movimenti neopagani, nati a cavallo dei due secoli.

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Brian Froud – A collective of Pixies

Seguendo lungo la deriva ecologista, chiudono la breve e non esaustiva carrellata sui folletti di Brian e Wendy Froud, coppia inglese di artisti, famosi per aver realizzato i disegni e i pupazzi di Labyrinth. Alla fine degli anni Settanta Brian Froud è autore insieme ad Alan Lee2 del best-seller Faeries (Fate), opera che coniuga illustrazioni, stralci di folklore e racconti tradizionali su fate, folletti, spiriti celtici e inglesi, Froud ha poi proseguito la sua personale ricerca pubblicando molti libri, in progressivo avvicinamento all’universo fatato. Alcuni di questi, fra cui gli ultimi due, presentano sia i disegni di Brian che le straordinarie bambole di Wendy, ritratti tridimensionali di amici (o nemici) che si affacciano nella brughiera o da una credenza scricchiolante.

Un bambino non ancora incluso nell’ordine sociale o che ne è appena uscito. Una creatura di vento e cespuglio spinoso che beve il nostro latte, ma fugge la nostra vista. Non del tutto come noi eppure familiare, fuori dalla società eppure antichissimo. Le paure vengono prima di ogni legge, e su di essa continuano ad affacciarsi. Ma insieme alle paure anche l’irrequietezza, l’entusiasmo, la selvaticità, l’arte sublime del perdersi e ridefinire le parole “casa”, “appartenenza”.

Dai margini un folletto ci guarda. Manifestazioni della natura o dei morti, delle turbolenze dell’infanzia o dell’adolescenza, di popoli raminghi nel sottobosco, i folletti sono quel qualcosa di meraviglioso e perduto che ricerchiamo, che ci sembra di aver intravisto un giorno, proprio lì, tra la luce fioca sul comodino e le ombre feroci proiettate sulle pareti, tra l’uscio di casa e il prurito dell’erba. A frotte o solitari, come avrebbe scritto William Butler Yeats, vestiti di verde o con cappucci rosso sangue, escono dagli enigmi del quotidiano, pura sostanza magica per chi crede che nulla è certo, che sui bordi dell’esistenza si annidano i corpi sgraziati, indomabili, danzanti delle nostre immaginazioni.


1.Si vedano questi saggi al riguardo: Joyce Munro, “The Invisible Made Visible: The Fairy Changeling as a Folk Articulation of Failure to Thrive Infants and Children”. In Peter Narvaez (ed. ), The Good People: New Fairylore Essays. (New York and London: Garland Publishing, 1991), pp. 251-283; Susan Eberly, “Fairies and the Folklore of Disability.” Folklore Vol. 99, No.1, pp. 58-77. Per il punto di vista di un’autorità religiosa quale Lutero si veda qui.

2.Famosissime le illustrazioni di Lee per Il Signore degli Anelli.


Francesca Matteoni (1975) ha pubblicato numerosi libri di poesia tra cui Higgiugiuk la lappone nel  X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010); Acquabuia (Aragno 2014, premio Marazza). Ha all’attivo pubblicazioni accademiche in inglese e in italiano, tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il suo primo romanzo. Abita con vari gatti sulle colline pistoiesi. È redattrice di Nazione Indiana e gestisce il sito Fiabe. Il suo ripostiglio si trova qui.


[SSdP] Sullo sfondo. Poetica dell’Eden perduto nel fantastico

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– Giovanni De Feo –

Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul,Sergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.

Weaveworld0

Nothing ever begins. Niente comincia mai.

Sono le prime parole di Weaveworld di Clive Barker. Il romanzo parla di una stirpe sovrannaturale – the Seerkind, i Veggenti – in fuga da una creatura nota come il Flagello. Per salvarsi da essa i Veggenti hanno intessuto in un immenso tappeto (il Weaveworld appunto) tutti i pezzettini del loro universo. Questo mondo si chiama ‘la Fuga’. Un tappeto o – forse – un arazzo, che è sia sfondo del narrato sia il trofeo a cui ambiscono i personaggi della storia. Calhoun Mooney, il protagonista del romanzo, passerà la vita cercando di tornare nella Fuga e di salvarla dall’oblio. Per farlo dovrà cercare di non dimenticarla mai, anche se il mondo dei Cuculi, il nostro mondo, non fa altro che adulterarne il ricordo.

Perché comincio da qui? Perché credo che uno dei motori fondamentali del fantastico sia l’anelito verso la terra d’incanto, la terra ‘altra’ da cui muove ogni meraviglia. Negli anni ho osservato come uno dei modi per realizzare questo anelito sia quello di costruire un effetto sfondo sovrapponendo livelli diversi.
In una delle sue lettere Tolkien scrive:

Parte del fascino del Signore degli Anelli è, credo, dovuto agli scorci di una grande storia sullo sfondo: un’attrazione simile a quella di vedere un’isola lontana e disabitata, o di vedere le torri di una città lontana scintillante in una nebbia illuminata dal sole. Andarvi è distruggere la magia, a meno che non si svelino nuovi orizzonti irraggiungibili.

Chiunque abbia letto il SdA sa di cosa sta parlando. La storia di Luthien e Beren, gli accenni di Galadriel alla Seconda Era, il Balrog e la storia dela caduta di Gondolin. Sono frammenti simili a rovine, pezzi di qualcosa che è andato perduto, che accennano appena, ma che proprio per questo comunicano un effetto vertiginoso di profondità. Gran parte del fascino del mondo di Tolkien è dovuto a questo effetto ‘di torre in torre’. Nothing ever begins. Ogni storia non è che un frammento di una storia più grande che resta taciuto.
Anche Hemingway diceva qualcosa di simile, ovvero che in un racconto il novanta per cento di ciò che conta non dovrebbe essere visibile. Ma l’estetica dell’“iceberg” ha delle ripercussioni tutte particolari nel romanzo fantastico.
Parafrasando Tolkien: stories untold are the most moving. Tuttavia, quali tipi di storie vi vengono taciute? E soprattutto: quale è l’effetto di questa reticenza sul lettore? Uno è l’effetto antico. In un romanzo dove si crea un Mondo Secondario la tecnica ‘di torre in torre’ crea qualcosa di simile a trompe l’oeuil temporale. Si crede alla realtà di questo mondo perché si vedono frammenti di diversi tempi sovrapposti, proprio come nel nostro mondo.

Ma non è tutto. Certi romanzi infatti tendono a subordinare ‘l’effetto sfondo’ ad alcuni temi precisi. Insomma, nel fantastico la reticenza non è solo tecnica, è tematizzata. E il tema è proprio l’altrove, l’Eden, la terra delle fate.
Uno sfondo si vede meglio facendo un passo indietro. Allontaniamoci un momento. Jonathan Strange e Mr Norrell di Susanna Clarke è un romanzo di magia ambientato in una Inghilterra di primo Ottocento dove la magia non solo è un fatto storico appurato e documentato ma è anche segreto perduto: i due maghi nel titolo fanno di tutto per restaurare la magia Inglese, con esiti a dir poco imprevisti. Tra essi ricordiamo: un patto con un fairie che per poco non provoca la morte del re d’Inghilterra, nonché la schiavitù di mezzo regno alle leggi del Sidhe.

Neil Gaiman dice – giustamente – che il libro di Susanna Clarke è l’unico romanzo fantasy degli ultimi quaranta anni che ha fatto della magia il suo tema.
Ora, per creare l’effetto ‘di torre in torre’ la Clarke racconta mini storie a volta collegate alla vicenda principale, più spesso del tutto aneddotiche. Questi aneddoti l’autrice li mette in nota a piè di pagina, creando un gioco di rimandi con il lettore, il quale è costretto ad allontanarsi dalla narrazione principale e a perdersi. Queste mini storie assomigliano alle miniature di un bestiario medievale; non complemento, ma vera e propria sostanza della narrazione.
Leggiamone una per farcene un’idea.

In L’albero della Conoscenza di Gregory Absalom c’è un brano celebre che riferisce come, nel suo viaggio nelle Terre Altre, Martin Pale l’ultimo degli Aureati, visitò un principe della gente incantata. Costui, come accade tra la sua razza, aveva una moltitudine di nomi, titoli, onirificenze, ma era noto come Cold Henry…

In Italiano abbiamo tradotto Fairie come Terre Altre e ‘gente incantata’ per fairy people, ma qui si sta parlando di un concetto fondante della letteratura anglosassone, il Fairie appunto. È la terra di tutte le creature incantate, corrispondente al termine irlandese al Brugh, il mondo sotto la collina.
Non ne parleremo qui, se non per accennare come non sia un caso che le note della Clarke accennino a esso. Il Fairie infatti non viene descritto mai direttamente – i due protagonisti ci arriveranno solo alla fine del romanzo – ma solo per adombramenti e riferimenti bibliografici. In Jonathan Strange e Mr Norrell l’autrice usa quindi una bibliomania labirintica per creare il suo ‘di torre in torre’. In fondo il romanzo è un libro su due bibliomani (i maghi del titolo) che a sua volta richiama un numero portentoso di rimandi bibliografici: libri che citano libri che a loro volta citano altri libri.
Inoltre tutte le note della Clarke sono ‘storiche’, ma a livelli temporali diversi, sfalsati tra di loro: più sono lontane nel passato più l’elemento fantastico è predominante, fino ad arrivare al mitico John Usglass –corrispondente grossomodo a King Arthur– personaggio che incarna il Faire in toto. A questa tecnica di allontanamento e avvicinamento corrisponde un tema, lo stesso di Weaveworld, l’irraggiungibilità e la non-raccontabilità del mondo incantato.

Non si tratta certo di un tema nuovo nel fantastico. Le sue matrici letterarie risalgono al Romanticismo inglese e tedesco. In Enrico di Ofterdingen il poeta tedesco Novalis racconta l’intricatissima storia di un ragazzo che in sogno vede un fiore blu e che dedice di dedicare la vita alla sua ricerca. Per farlo dovrà passare più volte i confini tra realtà e sogno, nonché tra vita e morte, arrivando anche alla terra dei morti (il romanzo è incompiuto, sappiamo solo le intenzioni di Novalis).
Sensucht, ovvero l’anelito per una completezza che si trova al di là di questo mondo, è sicuramente una delle parole centrali per definire questo stato d’animo. Yates la traduce in inglese come impossible longing, ovvero lo stato emotivo che ci porta a desiderare qualcosa di assolutamente irraggiungibile.
Negli scritti di Novalis si parla esplicitamente di ricongiungimento con l’assoluto. E il poeta tedesco parla del mistero –la tensione per l’ignoto– come lo stimolo più alto delle facoltà conoscitive. Questo senso dell’ignoto è sviluppato soprattutto dal Marchen, traducibile come fiaba e fiabesco, ovvero un genere che rappresenta l’opposto della realtà visibile. In altre parole la Sensucht è possibile solo attraverso la facoltà della fantasia, in quanto essa solo è capace di produrre oggetti non sensibili. Solo davanti a un altrove totale, possiamo provare Sensucht.

Vediamo allora come ciò che noi abbiamo chiamato la tecnica ‘di torre in torre’ è centrale al fantastico proprio perché esprime al meglio il senso di anelito per il mistero, per ciò che è infinitamente lontano e altro. Sempre Tolkien ne parla nelle sue lettere.

Ci sono due emozioni molto diverse: una che mi commuove molto e che trovo piccola difficoltà ad evocare: la nostalgia spacca-cuore per il passato scomparso (…); e l’altra le emozioni ordinarie, come il trionfo, il pathos, insomma la tragedia dei personaggi.

Ecco, per Tolkien i livelli narrativi sono sempre due: l’azione drammatica vera e propria, ed un’emozione che si situa ‘dietro’ ad essa e che proprio per questo dà profondità a tutto il romanzo. Tutto il SdA parla infatti di una perdita che non è solo individuale ma collettiva e universale. Pensiamo alla partenza di Frodo per le terre lontane alla fine del romanzo. Il portatore dell’anello non è solo, con lui ci sono anche tutti gli Elfi, che tornano alla terra da cui vengono, Valinor appunto, ovvero le Terre Lontane. Questo non è un dettaglio, è fondamentale alla concezione del SdA e persino della Terra di Mezzo.
Questo toponimo significa in apparenza “la terra degli uomini”, mentre le Terre Lontane sono quelle da cui vengono gli dèi. Ma il toponimo ‘di Mezzo’ ha anche un altro valore. Tolkien scrive nel suo celebre articolo sulle Fairy Tales come queste ultime difficilmente parlino in modo diretto delle creature fatate e del loro mondo. I protagonisti sono quasi sempre gli uomini che hanno rapporto con le fate, non le fate stesse. Ecco allora che il disegno del SdA ci appare più chiaro: la Terra di Mezzo è una via di mezzo tra il nostro mondo –quello che Tolkien chiamava il mondo Primario– e le Terre Lontane. Non è Faire, non è Valinor, ma è un ponte tra il nostro mondo e le terre dell’anelito.
Lo sa bene chi ha letto il romanzo, il prezzo da pagare per sconfiggere Sauron è che tutto l’incanto –non solo le teurgie del Nemico– deve tornare alla sua fonte; solo allora il racconto potrà terminare. Di simili aneliti il romanzo di Tolkien è pieno. Basti pensare alla paura che ha Legolas di vedere il mare, perché per la sua gente vuol dire accendere una nostalgia che non si spegnerà più.

Né Tolkien è l’unico. Uno dei romanzi più “ingiustamente dimenticati” del fantastico moderno –le parole sono di Neil Gaiman– è Lud-in-the-Mist di Hope Mirrlees, scrittrice modernista della cerchia di Virginia Woolf. Ambientato a Lud, una città pre-moderna che ricorda per certi versi Amsterdam, il romanzo della Mirrlees parla del Faire in modo quasi diretto e tematico.
Protagonista è infatti Nathaniel Chanticler, sindaco di Lud, che deve scongiurare una epidemia di ‘fughe’ nel Faire, prima con il frutto proibito chiamato ‘fairy-fruit’ e poi attraverso una serie di rapimenti che coinvolgono prima suo figlio e poi sua figlia.
In apparenza Chanticler sembra anche lui membro della borghesia farisea che ha scacciato l’incanto in ogni sua forma dalla città secoli addietro. In realtà il sindaco di Lud conosce quell’incanto meglio di tutti. Da bambino ha infatti sentito the Note, una singola nota che echeggia in lui in una nostalgia senza pace.
L’abilità di Mirrlees è quella di trasmetterci tutte le sfumature con cui la Sensucht evocata dalla Nota cambia la vita di chi la incontra. È – in nuce – la consapevolezza di sentirsi stranieri a casa propria. Citando il romanzo:

Per cui, a volte, Chanticler guardava al presente con l’agonizzante tenerezza di chi guarda al passato. […] Questa nostalgia per ciò che era ancora lì sembrava trovare una voce nel canto del gallo, che ci racconta della fatica aratro, dell’odore della campagna, del placido tran-tran di una fattoria, come accadesse ora; e allo stesso tempo sembra rimpiangerle come cose accadute secoli prima.

La Sensucht attua uno straniamento sottile: si gode della propria estraneità ad ogni cosa, la si vede come potenzialmente ‘altra’. È la meraviglia come assunto esistenziale, e non è facile conviverci. Alla fine del romanzo Chanticler dovrà infatti adempiere al compito più difficile: non andare a Faire bensì tornare da esso, e vivere una vita degna dopo questo ritorno. È il ritorno dalla Terre Lontane l’atto più eroico che ci è concesso da vivi. Non a caso le parole che chiudono il SdA sono quelle di Sam Gangee a sua moglie, ovvero: «Sono tornato».

A proposito del Faire, sempre Tolkien nel suo On Fairy Tales dice:

Il Faire non si può racchiudere in una rete di parole; perché una delle sue qualità è proprio quella di non essere descrivibile, anche se non impercettibile.

Faire

Notiamo la distizione: non descrivibile, ma percettibile. Ma come possiamo in un romanzo far percepire qualcosa senza descriverlo? La Mirrlees lo fa in due modi. Il primo è dare la percezione dei fairies come degli esseri liminari, né vivi né morti, indefinibili come la loro terra. Non sono ‘elfi’ o ‘brownies’ o ‘sidhe’ ma qualcosa che non ha nome, qualcosa al mezzo tra le bestie feroci e i morti, come appaiono negli studi dei folkloristi inglesi di inizio secolo, la Briggs in testa. Il secondo è attraverso il concetto di terra ‘liminale’. Ancora una volta: non narro le Terre Lontane ma il loro confine, fermando il mio racconto proprio sulla soglia.

In effetti ciò che Chanticler vedrà nelle Terre Lontane il lettore non lo saprà mai; ma avrà appunto esperienza dei suoi confini, le Elfin Marches (le Marche Elfiche). Nel romanzo queste terre liminali non sono un altrove inconcepibile, ma si presentano come un paesino che potrebbe essere lo stesso Lud. Solo che qui tempo e spazio sono out of joint, tempi e luoghi si rimescolano tra di loro, come nei sogni. Chanticler vede un mercato dove si commercia in assoluto silenzio, un paese dove i morti sanguinano, dove la notte e il giorno si alternano a ritmi vertiginosi, dove chi è morto può tornare in vita, magari sotto sembianze di bestia.

Tutto è quasi come a casa, ma allo stesso tempo diverso, unheimlich.

Gli spazi liminali, gli interstizi tra il Faire e il nostro mondo sono uno dei marchi distintivi della Clarke, che in Jonathan Strange e Mr Norrell ne fa un uso virtuosistico. Uno dei momenti più belli del libro è la descrizione che Jonathan Strange fa delle King’s roads, ovvero le strade magiche John Usglass, il re corvo, ha creato per unire Faire al mondo. Le strade segrete di Usglass –che non sono Faire, ma portano a Faire– si trovano guarda caso dietro gli specchi, anzi, dietro tutti gli specchi del mondo. Notare che la Clarke non fa mai una descrizione diretta delle King’s roads, ma le introduce attraverso una narrazione di secondo livello dello stesso Jonathan. Vale la pena di citarla quasi per intero.

Qualsiasi sia la ragione per cui John Usglass usava queste strade sembra non ne abbia più bisogno. Statue e murature sono in rovina. Lame di luce piovono da Dio-solo-sa-dove. Alcune sale sono abbandonate, altre sono allagate. E vi dirò un’altra cosa. C’era un numero incredibile di scarpe abbandonate. Probabilmente appartenevano ad altri viaggiatori. Erano molto rovinate e di una foggia antica. Da ciò immagino che questi passaggi siano stati poco utilizzati in anni recenti. In tutto il tempo in cui ci sono stato ho visto solo un’altra persona.

– Avete visto qualcuno?, disse Sir Walter.

– Oh sì! Almeno, credo fosse una persona. Ho visto un’ombra muoversi su una strada bianca che attraversava una scura brughiera. Dovete capire che ero su un ponte che era molto più alto di qualsiasi ponte io abbia mai visto. Il terreno era a migliaia di piedi di distanza da me. Ho guardato giù e ho visto qualcuno. Se non fossi stato lì per cercare Drawlight avrei sicuramente trovato un modo per scendere e seguirlo poiché sembrava non ci fosse modo migliore di spendere il proprio tempo, per un mago, che parlare con quell’individuo.

Qui la Clarke fa sfoggio di ben tre ‘tecniche sfondo’. Innanzitutto la narrazione di secondo livello, che allontana l’evento da noi, ce lo rende indiretto e allo stesso tempo più personale, un ricordo colorato di soggettività.
Poi c’è l’architettura stessa delle King’s roads, una vista di rovine che si apre su altre rovine, sul tipo delle Carceri del Piranesi. È uno tropi del fantastico, le rovine antichissime, impossibili nel nostro mondo. Notare i due elementi tipici: il gigantismo e la loro inesauribilità. Le King’s roads adombrano all’infinito per estensione sia nello spazio che nel tempo.
E infine il tocco da maestro, ovvero i ‘particolari inutili’, le scarpe abbandonate e l’individuo misterioso. La bravura della Clarke sta in questo: nessuno dei due verrà spiegato o se ne accennerà mai più nel romanzo.

KIng's roads

Si dice che in un film classico se c’è una pistola è segno che – prima della fine – sparerà. Nel romanzo naturalista è di solito il contrario. È proprio l’accumulo dei dettagli che non servono al plot a dare il ‘senso-realtà’. Ecco, nel fantastico i dettagli inutili, inconclusi, diventano invece una porta di accesso al mistero.
Attraverso il frammento non-concluso lo scrittore ci fa intravedere un mondo che obbedisce a regole misteriose, di cui intuiamo la natura ma che non capiamo fino in fondo. Non solo, lo scrittore ci rende partecipe di un gioco immaginativo in cui siamo portati noi a trarre delle conclusioni.

È il concetto del vago di Leopardi: la nostra immaginazione è tanto più stimolata dal frammento rispetto perché può figurarsi da solo il resto. Il tutto sarebbe un giochetto da due soldi se la Sensucht, la tensione verso la terra ‘altra’ muovesse non solo l’intreccio ma anche l’agire profondo dei personaggi: Jonathan Strange si giocherà la vita della moglie per esplorare le King’s Roads.
Così è anche per Chanticler di Lud, e in certa misura anche per i personaggi del SdA, il cui destino è essere chiamati alle Terre Altre per aver alterato l’equilibrio rappresentato dall’Anello.

Ma torniamo a Clive Barker e alle sue teurgie. Dicevamo che il tappeto del titolo, ovvero la ‘Fuga’ –termine escapista e musicale insieme– è la terra dove tutta la magia è possibile. Ma il romanzo di Barker sapientemente non si svolge nella terra d’incanto, ma intorno a essa. Il vero centro del racconto è infatti il raggiungimento e la perdita costante della Fuga, e il modo con cui la sua conoscenza e il suo ricordo continuamente sfugge al protagonista del romanzo.

Siamo tutti esuli di un Paradiso Perduto – scrive Barker – sia esso il ricordo di uno stato prenatale o una convinzione religiosa troppo radicata da poterla escludere con la ragione, oppure chissà, il nostro collegamento con il cosmo intero. Tale senso di perdita e di riconquista è alla base di alcuni dei migliori lavori di letteratura immaginativa, anche alcuni dei più popolari. Quello che mi sembra significativo qui non è quanti di essi parlino di ‘Eden’, ma quanto il modo con cui ne parlino è proprio tipico del fantastico.

Abbiamo aperto con una frase di Weaveworld, e così chiudiamo: Nothing imagined is ever lost. Niente di ciò che è immaginato può essere perduto.
Lo si chiami Eden, o Terra Lontana, o Fairie, questo luogo è per eccellenza la non-forma della felicità, ovvero una felicità che non si può immaginare come oggetto sensibile, ma solo come tensione verso ciò che sensibile non è.
È per questo che essa tende a rimanere sullo sfondo, e di rado al centro dell’azione se non per poche pagine. Eppure, come nel romanzo di Barker, tale sfondo, sebbene appena intuito, raccontato di seconda mano, sbirciato attraverso sogni e ricordi, è il cuore della fantasia come facoltà pura, fine a se stessa: l’anelito alla felicità tutta particolare che solo ci può dare l’ignoto.


Giovanni De Feo. Romano, vive a Genova dove insegna letteratura in una scuola di International Baccalaureat e dove ha fondato nel 2012 una associazione di storytelling, Narrazena. Ha pubblicato i romanzi fantastici Il Mangianomi per Salani e L’isola dei Liombruni per Fazi. Alcuni suoi racconti sono pubblicati per riviste americane come Betwixt e Conjunctions.



[SSdP] Giovani. L’adolescenza, la soglia e la morte nel fantasy

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– Silvia Costantino –

Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul,Sergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.

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Pauline Baynes – Narnia

Questo pezzo originariamente voleva chiamarsi, in modo elegantemente postmoderno, La morte e la fanciulla, e voleva parlare del percorso che ogni giovane protagonista – donna –  di libri fantasy è costretta ad affrontare: quello che parte da un’età acerba e incosciente per poi arrivare a fronteggiare la morte (interiore, esteriore, metaforica, fisica o entrambe), con successiva rinascita con poteri/conoscenza/consapevolezza. Più ci riflettevo, però, più mi rendevo conto di quanto limitare questa riflessione alle ragazze sarebbe stata una chiusura da parte mia. Perché la verità è che tutti i giovani dei fantasy che ho letto subiscono, in pieno rispetto delle regole di Propp, lo stesso destino.

In moltissimi romanzi (dove Il Signore degli Anelli è quasi una eccezione e Il Leone, La Strega e L’Armadio è la regola), i protagonisti sono ragazzi: le emozioni a fior di pelle, il violento passaggio tra adolescenza ed età adulta che nel fantasy si trasforma e muta continuamente aggiungendo al divenire fisico una trasformazione magica.

Un esempio tra i più noti in assoluto: Harry Potter. Il suo nemico si chiama Voldemort. Non so se in inglese faccia lo stesso effetto, ma questo nome, in italiano, è già abbastanza evocativo. Se non fosse sufficiente, basti ricordare che Voldemort è la vera e propria nemesi di Harry: nel senso che la profezia che li lega dice «e l’uno dovrà morire per mano dell’altro, perché nessuno dei due può vivere se l’altro sopravvive…». E di fatto Harry, quando capisce che l’unico modo per uccidere Voldemort è morire lui stesso, non esita ad accettare il proprio destino. Quello che succede dopo, è che Harry “rinasce”: più maturo, più cresciuto, segnato da qualcosa di molto più grande e profondo di una cicatrice a forma di fulmine.

Mettiamola così: secondo me il fantasy è il romanzo di formazione, del coming of age, per eccellenza. Non a caso è un genere che spesso e volentieri si fonde con quello, di matrice editoriale, dello Young Adults; non è un caso se la collana YA di Mondadori si chiama Chrysalide (e come tutte le collane YA ha un gran numero di fantasy in catalogo).
Da grande lettrice di YA di qualunque sorta, ho sempre amato identificarmi nelle figure dei ragazzini protagonisti, nei loro drammi privati e nelle loro crescite: drammi che per quanto “adolescenziali” possano essere, sono di solito così scoperti e graffianti da toccare corde di un periodo della vita mai del tutto abbandonato. E mi sembra che la messa in scena così allo scoperto del fantasy, con le sue allegorie così chiare e sfacciatamente dichiarate, anziché alleggerire il peso delle sensazioni legate alla crescita, le amplifichi all’infinito. In ogni romanzo di formazione che si rispetti, è chiaro, ci deve essere un momento di rottura, una crisi che porta alla crescita. Ma perché tutti i giovani eroi della narrativa fantastica, dalle fiabe russe o celtiche o italiane ai moderni fantasy – ed è una cosa che nemmeno la Disney nelle sue edulcorazioni riesce a eliminare definitivamente – tutti a un certo punto si trovano ad affrontare la morte? Hai tredici, quattordici, sedici anni, sei al principio del cammin della tua vita, e ti trovi ad affrontare la cosa più difficile, incomprensibile, oscura e tenebrosa di tutto il nostro immaginario. Che sia sotto forma di demone, di lama o di drago cambia poco, perché la metafora è, più o meno implicitamente, sempre la stessa. La questione non è tanto il sacrificio di sé come ultimo atto di coraggio, anche se è un argomento molto vicino a questo. Il punto è più sottile, oscuro, difficile da definire.

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Lyra Belacqua, fanart

Per provare ad affrontare questo tema, su cui gente molto più competente di me si è cimentata e ancora si cimenta, partirei da lontano, e per la precisione vorrei parlare di Lyra Belacqua: la protagonista della meravigliosa trilogia di Philip Pullman è priva di potere alcuno, ma è l’unica in grado di leggere la Bussola D’Oro perché ha dodici anni, è bambina abbastanza da comprenderne il vorticare e le immagini puntate dalle lancette. Il suo rapporto con la Bussola si incrina con l’adolescenza, con la comprensione del mondo ‘reale’ e con i primi turbamenti sessuali. Lyra ha fronteggiato la morte prima, già da bambina, al momento in cui ha scoperto – e sventato – i piani di Lord Asriel, ma questo non le ha impedito di mantenere la necessaria purezza e fede – quanto viene in mente Peter Pan – perché il mondo magico continuasse a svelarsi intatto ai suoi occhi. Lyra (nome che ricorda “lyrics”, le canzoni, e dunque le bugie, e dunque l’immaginazione: ancora una volta la parola, e la magia: non dimentichiamo che il suo soprannome è Linguargentina) si trova a vivere un momento in cui sono la sua forza, la sua fede e la sua immaginazione a doverla supportare. Lyra dovrà studiare l’aletiometro al momento in cui inizia a crescere e non riesce più a tradurlo da sola, e questo è il momento in cui più la ragazzina è spaventata. Ma è anche la spinta che inizierà a cambiarla e a trasformarla, da bambina dalla lingua argentina a giovane donna. La bravura di Pullman, e di molti altri autori di questo genere, non sta nel raccontare l’adolescenza come un momento di passaggio, di crescita positiva, ma di mostrarne il lato oscuro, la zona d’ombra: quella che impedisce al mondo di mostrarsi nella sua magica interezza perché le sovrastrutture dell’età adulta creano una cortina dalla quale è sempre più difficile districarsi. È evidente che questa fase della vita è percepita e raccontata, anche da chi scrive, come la più difficile di tutte. I tormenti degli adulti, per quanto forti e appassionanti possono essere, per quanto a volte infantili e immaturi, difficilmente eguagliano quelli degli adolescenti. Forse perché c’è già una buona corazza, forse perché si è più facilmente in grado di reagire a cose che ormai non sono nuove. Essere inermi, essere giovani, è doloroso. Ma è forse anche l’unico modo per poter percepire «l’anello che non tiene».

Sempre a proposito di Lyra, l’onniscienza di Wikipedia ci informa che «Lyra’s original surname, Belacqua, is the name of a character in Dante’s Divine Comedy, a soul in the ante-purgatory, representing those who wait until the last opportunity before turning to God. The mood in the ante-purgatory is said to be one of helplessness, nostalgia and yearning — Belacqua and the other souls in ante-purgatory are caught between two worlds and lack clear understanding of themselves». Parlavamo di soglie?
In La soglia di Ursula K. Le Guin i due giovani, goffi, depressi e disperati protagonisti vengono spediti in un viaggio suicida proprio dagli abitanti felici del paese in cui loro andavano per sfuggire dalla durissima realtà “normale”. Ora, La Soglia è un ottimo libro per esemplificare quello che vorrei rendere chiaro. Purtroppo non è venuto molto bene a Le Guin, che per troppa costruzione sacrifica molto dei personaggi: ma il loro essere così “spiegati” ci aiuta nel comprendere meglio il mio ragionamento.

Non pensi mai ad andare oltre il drago, si disse Irena. Pensi soltanto a raggiungerlo. Ma cosa accade dopo?
Ricominciò a piangere, sommessamente, senza soffrire. Le lacrime le rotolavano sulle guance in un velo, come l’acqua di fonte. Pensò alle braccia orribili e penose [del drago appena ucciso], alle mammelle appuntite, mise il volto tra le braccia e pianse. Sono passata oltre la tana del drago e non posso tornare indietro. Devo andare avanti. Questa era la mia patria, la luce alla finestra, il fuoco del focolare, là ero una figlia, ma è tutto finito. Ora sono soltanto la figlia del drago e la figlia del re, quella che deve proseguire da sola e andare avanti, perché non c’è una casa dietro di me.

Paradossalmente i due protagonisti sono più grandi rispetto a quelli cui mi riferisco nel resto dell’articolo, sono entrambi sulla ventina. Eppure sono, entrambi, chiaramente in una condizione mentale molto complessa, difficilmente li si definirebbe adulti o quasi: entrambi vittime di qualche tipo di sopruso, sono in una situazione di stallo e confusione perenne dalla quale non riescono a uscire. Oltrepassare la soglia, o entrare nel “beginning place” (titolo originale del romanzo), significa per loro trovare un mondo in cui la realtà che li opprime smette di esistere, in cui loro possono smettere di pensare. Ma questo mondo incantato che per loro è così benefico si rivela ben differente: la ragione per cui erano i benvenuti era molto più crudele di ciò che pensavano i due ragazzi e prenderne coscienza, decidere di accettare il proprio destino sarà ciò che, finalmente, renderà Irena e Hugh in grado di andare avanti con le proprie vite.

Ma Alfonso era in uno di quei momenti quando la giovinezza è attraversata da qualche melanconia che spaventa; quasi dall’odore della morte. Gli pareva di non avere nessuna ragione per essere triste; e voleva essere forte, anche dentro di sé. Qualche volta si sentiva ancora un ragazzo, e allora camminava più lesto per lasciare questo ragazzo, che era stato una parte di lui stesso, dietro di sé. Lo voleva mandare via a tutti i costi; e credeva che quella passeggiata gli facesse trovare definitivamente il senso della sua adolescenza; di cui non era abbastanza sicuro. Ma sperava che gli capitasse per istrada qualche cosa per provare a sé stesso che ormai poteva fidarsi del proprio animo. Già, passando rasente a qualche fonte del borro, s’accertava sempre di più che non provava ormai quella curiosità di fermarsi a guardarla come una volta: ora gli pareva di conoscere tutte le cose che vedeva, e a pena le sdegnava di uno sguardo, badando soltanto dinanzi a sé. Ogni tanto, però, aveva paura perché l’erba frusciava sotto i suoi piedi.

Questo passaggio proviene da un discorso di un autore che non potrebbe essere più distante dal mondo del Fantasy: si tratta di uno stralcio dalla novella Un giovane di Federigo Tozzi. Quando all’università studiai Tozzi, mi rimasero fortemente impresse due cose: la sua interpretazione della “giovinezza” come lutto; e il suo espressionismo “magico”, metafisico, comunque sempre proteso a cogliere i barlumi di un mondo ormai perduto. Una validissima interpretazione di Tozzi, è appunto quella che lega i ‘giovani’ di Tozzi e il loro sentire a un momento di elaborazione del lutto: il momento che intercorre tra il distaccamento dall’infanzia e l’ingresso nell’età adulta, cioè l’adolescenza, equivale a una perdita profonda e traumatica, decisamente vicina alla morte. Così vicina che fa paura: i giovani di Tozzi sono sempre tremebondi, impauriti. Scrive Romano Luperini:

La giovinezza è per Tozzi una malattia dell’anima […] non ci lascia il tempo di guarire. Nessuna possibilità, più, di romanzo di formazione. La malattia della giovinezza è caratterizzata dallo sperpero di tempo, dalla dispersione delle sensazioni, dall’incapacità di conservare le esperienze e di tesaurizzarle in vista di una crescita e di uno sviluppo. Il tempo non è progressione, conquista, evoluzione. La giovinezza è un eterno presente da cui è impossibile uscire, metafora dell’estraneità dell’uomo al proprio destino. Porta con sé […] un sentore di morte.

D’altra parte, pochi meglio di Tozzi hanno saputo descrivere anche l’incanto della giovinezza. Persi in questi momenti privi di riferimenti concreti, i protagonisti del suo bestiario, o delle sue novelle, o dei suoi romanzi, hanno quasi sempre un momento in cui riconoscono il mondo “reale”, cioè quello al di là del convenzionale. Si tratta di pura metafisica, si tratta di scostare le cortine del vero per trovare il magico.
Se ci facciamo caso, i giovani protagonisti dei romanzi che noi amiamo leggere sono tutti estremamente vicini a questa descrizione. Frastornati, scossi, spesso feriti e fragili, spesso incapaci di affrontare la propria situazione e reagire. Si lasciano trasportare dal flusso, e ogni loro azione li porta sempre più vicini alla catastrofe. Non sto cercando di dire che Tozzi sia il precursore del Fantasy italiano, né viceversa che gli autori del fantastico si ispirino allo scrittore senese: ma colpisce la precisione chirurgica con cui quest’ultimo sia riuscito a identificare una condizione, quella della sospensione tra due mondi – sulla soglia –, e della paura di andare avanti e di tornare indietro, che è così realistica e al tempo stesso apre a così tanti universi narrativi. Tozzi lo sapeva, e ha sempre cercato di farci intravedere il luccichio dell’oltremondo. Ma i suoi giovani erano incapaci di procedere: l’unica cosa che potevano fare era chiudere gli occhi, e smettere di guardare.

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Tony Sandoval, Watersnakes

Al contrario, rispetto alla cupa visione tozziana, le nostre storie proseguono. E ci raccontano dalla giovinezza si può uscire, e lo si fa nell’unico modo possibile: attraversando la soglia, affrontando la morte e la paura, per uscirne rigenerati (l’ho già detto l’anno scorso, ma come è bello il passaggio della trasformazione di Laura Chant ne La figlia della Luna?) – o no, ma abbracciando la morte consapevoli che sia l’unica scelta sensata, e matura, possibile. Pensiamo a Ailis di Terra Ignota: ecco un esempio tra molti di chi sceglie il sacrificio di sé per un bene maggiore. In nessun caso, anche quando proprio non vorresti che la storia finisca così, chiudere questo tipo di romanzi lascia una sensazione di incompiutezza, o dolore: è successo quello che doveva succedere. Nel migliore dei modi possibili, spesso nel peggiore dei mondi possibili.
Ben diversamente da quanto accade nei romanzi in cui sono gli adulti i protagonisti: solo gli adolescenti possono abbracciare la morte e rinascere, e sentirsi completi e pronti ad andare avanti, ma questo non significa che l’età adulta sia il luogo della certezza. Le certezze assolute dell’infanzia, già messe violentemente in discussione durante l’adolescenza, si frantumano in migliaia di dubbi, lasciando i nostri eroi adulti a combattere con il sospetto, con la colpa, con la paura, con miriadi di sfumature quasi inesistenti in precedenza. Addio Ailis, Lyra, Laura, Harry. Benvenuti, e benvenute, nel regno degli adulti, dove il sangue scorre copioso e la morale è relativa.

Ma questa è un’altra storia.


Silvia Costantino: Ama i libri, la fotografia, le serie tv e i film della Marvel. Vive a Firenze, dove ha organizzato il festival Firenze RiVista e ogni tanto presenta un libro. È fondatrice e redattrice di 404: file not found, collabora con la rivista cartacea con.tempo, ogni tanto appare su Abbiamo Le Prove. Ha un alter ego, Giorgeliot, che si diverte a raccontare i fatti suoi.


[SSdP] Il destino e il filo degli eventi

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– Vincenzo Marasco-

Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo StrukulSergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.

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Achille guarda il corpo di Ettore

Né la forza né la saggezza ci condurrebbero lontano.

Esiste chiaramente un legame tra una certa epicità e parte della letteratura che finisce nel calderone del genere fantasy. Quale sia questo legame però, e invero anche in cosa consistano con precisione i due termini, rimane poco chiaro. Rinunciando ad una qualunque definizione positiva del campo, vorrei provare ad isolarne una sua componente, quello che potremmo chiamare un “effetto epicità”, che prende vita grazie alla capacità del testo di suscitare un determinato sentimento, connesso – mi sembra – ad uno specifico rapporto tra la vastità della Storia e la storia individuale.

Con vastità della Storia intendo una apertura sostanziale del testo. È una cosa che, ad esempio, recentemente Vanni ritrovava in Slam Dunk: la sensazione che – alla storia che stiamo vivendo – sia possibile sempre aggiungere altre storie, che essa stessa vada inserita all’interno di altre storie e che solo in questo nesso acquisisca il suo senso. L’impressione che ogni storia non abbia, in fondo, né inizio né fine [rinvio qui all’intervento di Giovanni De Feo]. L’altro polo è il rapporto tra questa vastità e la storia individuale, la “piccola” avventura singolare del protagonista. Definirei compassione il sentimento prodotto da questa relazione, come elemento che non necessariamente emerge in primo piano, quasi un sottofondo del testo, che spunta talvolta a sorpresa, e che costituisce una delle componenti del tono epico.

Mi sembra che la categoria di destino possa risultare utile a concettualizzare questo intreccio. Il topos di cui parlerò quindi è: il destino come spazio per costruire un certo “effetto epicità”. È ovvio infatti che questo è uno dei topoi classici delle storie con un eroe: l’eroe – si sa – è destinato. L’obiettivo principale che mi propongo è esplicitare le articolazioni di quello che può sembrare un rapporto lineare tra eroe e destino, come se questo legame finisse per sottrarre spazio alla libertà d’azione e quindi all’etica. In questa semplificazione, a mio avviso, si annidano alcune armi retoriche spesso usate per svalutare il genere nonché alcuni dei difetti principali di svariate opere dello stesso (penso, ad esempio, pure essendo stato per me un classico dell’adolescenza, a Dragonlance e alle irritanti apparizioni casuali di Fizban, come forza che subentra nella storia senza riuscire ad aggiungere nessuna complessità al mondo).
A suggerirmi questa strada sono state due raffinate riflessioni che saccheggerò abbondantemente: quella di Edoardo qui l’anno scorso, sul sentimento di coraggio “nordico” di fronte alla fine certa, e il lungo lavoro di Wu Ming 4 sull’eroismo nel Signore degli anelli (SdA), in particolare sulla figura di Aragorn (ad esempio, in questa conferenza). Gli strumenti concettuali che uso li ho rubati da un bel libretto di Agamben che si chiama L’avventura.

Un’ultima precisazione. Non avendo le capacità per produrre né una fenomenologia né una teoria del destino nelle opere fantasy, ho scelto di esaltarne alcune caratteristiche tipiche, per lo più con l’aiuto di esempi tratti dal SdA. Il rischio, come sempre quando si agisce così, è di fare di tutta l’erba un fascio, di far sembrare tutte le storie un’unica storia. Che il lettore prenda quanto segue per quello che è: una riflessione stimolata dalle storie.

Dicevamo allora che l’oggetto è il destino, come intreccio che dà vita allo spazio in cui si produce una certa epicità. La prima cosa che possiamo dire è che, come dispositivo narrativo, esso funziona all’inverso di come talvolta lo si immagina, ovvero come assicurazione divina della vittoria dell’eroe e del superamento delle prove, con un effetto di deresponsabilizzante. Per chiarire questa dinamica vorrei scomporre – una scomposizione che può rimanere soltanto analitica – il destino in tre componenti. Da un lato un destino inteso come destino personale, che possiamo, in onore ad una antica tradizione, immaginare come daimon, come una disposizione o vocazione. Dall’altro lato, destino indica invece la Storia che si impone sul singolo, ovvero un intreccio di eventi che avviene di per sé, in cui siamo immersi e che agisce in quanto forza esterna su cui noi, individuali, non abbiamo alcun potere. Potremmo definirlo come tyche, un “caso”, ma meglio un filo, per noi insondabile, degli eventi. In qualche modo esprime l’intreccio delle azioni di tutte le potenze, umane e sovrumane, presenti nel mondo in cui siamo immersi. Chiamerei invece Avventura proprio lo spazio soggettivo in cui si intrecciano queste due componenti. Vorrei analizzare questa relazione.

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Milo Manara – Quando Hugo Pratt ci conduce all’Avventura

Cominciamo dal destino personale. La prima cosa che possiamo notare è che tale destino non si manifesta come una cosa si possiede, allo stesso modo di come possediamo una macchina, né come una cosa che abbiamo a prescindere, come si hanno, che so, gli occhi chiari.
Nelle storie, il destino personale fa il suo ingresso in varie forme, ma possiede una cifra comune che definirei eredità. Tale eredità è il marchio che alla nascita definisce la specificità dell’eroe, la sua diversità rispetto agli altri. Ma penso che il termine eredità espliciti meglio di altri il doppio ruolo che tale marchio esercita, come “segno” sia di una dotazione sia dell’inserimento in una serie di rapporti determinati. Esso, oltre ad essere una disposizione aggiuntiva, è anche qualcosa che ti lega. Eredità esprime già un certo rapporto col mondo delle storie e la sua vastità: esprime l’essere gettato nella storia a partire da un punto – un punto specifico e contingente – e definisce la specificità a partire da quel contesto. Un buon esempio possono essere le saghe degli islandesi. Queste saghe si aprono spesso con una lunga genealogia, in cui il protagonista compare solo dopo un po’ – talvolta dopo molte pagine. Al di là dell’effetto estraniante che può avere per noi – e lasciando momentaneamente da parte l’importanza che per un islandese del tempo poteva avere – la genealogia ha la funzione di legare l’eroe ad una storia nel passato e nel futuro e anche di specificare le sue caratteristiche: essere discendenti di Ketill Salmone nelle saghe significa contemporaneamente essere parte di una genia che aveva prodotto individui eccezionali e confrontarsi con determinate disposizioni[1]. In un primo senso questa eredità, quindi, è qualcosa che nel momento in cui consegna al protagonista una specifica disposizione, rivela anche che tale disposizione non è completamente sua, viene da qualcosa che pre-esiste e che si impone. «Frodo era destinato ad avere l’Anello» significa che esso è segnato da quell’attributo, ma anche che Frodo è figlio di una storia, che si eredita anche proprio malgrado: definisce l’eroe e lo lega a storie precedenti.

La seconda specificazione che dobbiamo fare è che di questo evento è necessario farsi carico. Tale eredità non è solo questione di diritto di nascita, va – eventualmente – raccolta. Bisogna in qualche modo “meritarsela”: Elrond ci darà sì l’anello di Barahir, ma lo scettro di Annuminas ce lo consegnerà solo quando ci saremo mostrati degni. Per riprendere lo stesso concetto tornando alle saghe, notiamo che, solitamente a 12 anni, l’eroe compie un gesto che lo qualifica come possessore di quella specifica parte di eredità che caratterizza la sua eccezionalità. È un’eredità quindi che va attivata, una identità che va riconosciuta se non scelta, e che ha un prezzo: l’abbandono di altre parti di sé (solitamente quella più ordinata).
Bisognerà quindi non solo ritrovarsi in possesso di una eredità, è necessario riconoscersi figli di quella parte, di quei determinati rapporti in determinate storie già esistenti, e farsene carico. Per riassumere, questa dimensione di daimon non si manifesta quindi né come cosa esclusivamente personale, né come cosa di cui uno possa disporre, ma come un’esistenza ambigua, al contempo personale ed autonoma.

C’è un ultimo punto che va esplicitato. Tale vocazione non va solamente riconosciuta: essa va costantemente confermata, curata e, soprattutto, bisogna rimanervi fedele. Nel procedere della storia infatti non solo i nemici potranno essere sempre più potenti, ma le situazioni potranno sviare, disperdere le energie, riconfigurare gli obiettivi. Frodo non deve solamente riconoscere il fardello che ha ereditato ed andarsene dalla Contea, ma confrontarsi ogni giorno con la tentazione di metterselo – mentre si avvicina sempre più a Mordor, e nell’ignoranza completa di cosa la Via ci metterà davanti.
Ogni volta la predestinazione ha bisogno di essere confermata e, ahimé, l’eroe non conosce il piano finale. È qui, quindi, che entra in scena la seconda componente del destino, il filo degli eventi, la Storia. Vediamo un po’ questo rapporto.

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Frankenstein Junior – Raccogliere l’eredità

Anche qui, quello che mi sembra importante sottolineare è che il rapporto tra il seguire/curare la propria vocazione e la Storia non è un rapporto unidirezionale, in cui basta seguire se stessi – la propria vocazione, passione, determinazione – al di là delle avversità, essere se stessi a prescindere da tutto. Anzi, l’Avventura si configura proprio come la difficile torsione che dobbiamo dare al daimon nell’equilibrio con la tyche. Possiamo confidare nella nostra vocazione per quanto riguarda la strada da seguire, ma non è facendo affidamento su di essa che possiamo pretendere che le cose vadano come vogliamo. Non possiamo né pretendere da noi stessi la sicurezza del nostro successo né, al contrario di quanto spesso si crede, lo spirito principale dell’Avventura è quello di seguire la propria stella qualunque cosa accada, andando incontro al destino col sorriso sprezzante di chi cerca una bella morte.

La Storia è notoriamente più grande della vocazione singolare. La nostra storia appunto si svolge in una Storia che è più grande e che non è nostra, che non deteniamo, non importa quanto brillante sia la stella sotto la quale siamo nati. Noi siamo sempre inseriti in una rete di dipendenza da altre forze e per illustrare le avversità cui si va incontro quando non ne teniamo conto, niente mi sembra meglio delle riflessioni di Wu Ming 4 su Aragorn.
Come sappiamo il destino di Aragorn, la sua eredità, parla chiaro: egli è l’erede di Isildur, possiede l’arma che già una volta ha sconfitto il nemico, e il suo destino è quindi quello di regnare a Minas Tirith. Ma, una volta scomparso Gandalf ed essere divenuto il legittimo capo della compagnia, la sua leadership vacilla e conduce al disastro. Al momento di prendere una decisione, troviamo Aragorn turbato dalle sue responsabilità e, soprattutto, dal suo desiderio, dalla sua volontà di seguire, nei termini del nostro discorso, il suo daimon. Lui vorrebbe andare a Minas Tirith, perché è quella la sua “vocazione”, ma, in cuor suo, sa probabilmente che non è quella la strada. E fa allora la cosa peggiore che un leader può fare: delega la scelta e temporeggia, e questo temporeggiamento, come sappiamo, sarà fatale: Boromir avrà tempo di minacciare Frodo, gli Orchi tempo di attaccarli, Merry e Pipino verranno rapiti e la Compagnia si scioglierà. Solo dopo, sulla riva del fiume, riuscirà a comprendere, a ritornare in sé, per gettarsi all’inseguimento degli hobbit: «il mio cuore parla infine chiaramente: il destino del Portatore non è più nelle mie mani».
Aragorn prende atto che la Missione non è nelle sue mani, che non è mai stata nelle sue mani, che la sua Avventura si ridefinisce all’intreccio con altre storie, che la Storia è più grande di lui, ed è grazie a questa nuova comprensione che può riprendere il suo ruolo. Non stiamo parlando solo dell’ammirevole umiltà da parte di un personaggio che potrebbe vantare altrimenti un discreto curriculum, quanto dell’esercizio di riconsiderare con distacco il quadro generale e percepirvisi dentro. È solo grazie a questo movimento – se vogliamo, di riconoscimento della dipendenza da altre relazioni, del proprio posto in esse – che egli può rileggere con chiarezza i suoi obiettivi e ritornare nel suo ruolo eroico. Mi sembra un ottimo esempio del rapporto di equilibrio tra destino personale e corso degli eventi, del sottile filo su cui si regge la cura della propria vocazione nel quadro labirintico delle forze in movimento.

Vorrei segnalare due cose di questa riflessione su Aragorn. La prima appunto è lo spazio che si apre a partire da questa necessità di decifrare un pezzo dell’incommensurabile generalità della Storia per capire cosa fare, per reinterpretare il proprio posto all’interno della trama. L’altra, che l’inseguimento cui si accingono è, ed è detto chiaramente, «senza speranza» e, a dirla tutta, è un altro fallimento: Merry e Pipino si salveranno sì, ma solo perché il mondo è tanto grande che entreranno in gioco forze che finora non erano state prese in considerazione – e, riconosciamolo, perché sono bravi. Ma ciò che differenzia questo fallimento dal precedente è proprio che qui l’Eroe sta facendo ciò che – date le circostanze – è l’opzione plausibile, quella da seguire: egli ha fatto pace, diciamo così, con le ‘ingiustizie’ che la Storia imponeva alla sua vocazione.
Esplicito questi due punti. Sul primo: in questo difficile intreccio tra vocazione personale e generale piano degli eventi, l’Avventura apre uno spazio di riflessione etica nel racconto. E, di nuovo, nessuno lo rende più esplicito di Tolkien. Nella subcreazione tolkeniana, possiamo notare, il potere si identifica proprio col vedere lontano, ovvero con la capacità di penetrare questo filo degli eventi, col poter confrontarsi più consapevolmente con il caso, «se caso si può chiamare». I potenti vedono lontano, da Elrond a Sauron; molti degli artefatti magici, Palantiri e Specchio di Galadriel, di fatto, permettono una visione. Come comportarsi di fronte a questa visione? Gandalf ci fornisce un ottimo esempio virtuoso. Pur potendolo definire verosimilmente come il principale artefice della trama, la sua forza è riuscire a percorrere la Storia senza forzare gli eventi: egli parla, consiglia, rincuora, ma non costringe mai nessuno, né con la forza né con l’autorità. Egli è consapevole che la vastità del quadro trascende anche la sua potenza, e non è dunque imponendola – nonostante la proverbiale impazienza – che egli arriverà alla fine. Se dovessimo dire da cosa tragga forza il piano di Gandalf, diremmo che è fondato prima di tutto su una grandissima dose di fiducia.
Abbiamo quindi da un lato un compito a cui badare, una vocazione, e dall’altra una Storia, che nell’ordine: ci è imposta – noi vi capitiamo dentro ad un certo punto casuale («questo capita a tutti coloro che vivono in tempi come questi»…); cui siamo indifferenti – il nostro posto non è che uno tra gli altri, è, letteralmente, la storia di altri, la Storia delle storie di altri; ci trascende – poiché le forze in gioco sono più potenti del singolo, e i risultato finale dipende da esse; il suo senso è contingente – e se ve ne fosse uno più generale, nessuno vede così lontano da poterci contare.
Se, anche nel caso del grande Stregone, il posto in cui ci mette l’Avventura è quello della limitatezza nei confronti della potenza delle forze presenti nella Storia, due sono allora i rischi che la accompagnano. Il primo, vedere l’intricato filo e cercare di imporre su di esso il proprio daimon. È la hybris, l’errore classico dell’epica: non è facendo affidamento sul proprio potere per seguire la propria vocazione che si possono evitare esiti nefasti. Il male ha questa forma nel SdA: il voler forzare il proprio destino, pur a fin di bene, imponendolo alla Storia – voler seguire il proprio daimon nonostante la Storia, o renderlo più forte della Storia: così per Melkor, così per Saruman[2], ecc… Vorrei chiarire che il punto non è non forzare la Storia, che è invece il compito di ogni uomo, ma forzare il destino personale contro la Storia, appunto non ritrovarsi più nel ruolo che ci è messo davanti.

Il secondo è invece il rischio opposto. Vedere l’intricato filo e disperarsi: ed è Denethor figlio di Ecthelion ad incarnare questo secondo dramma. Per comprendere meglio la posizione di Denethor e al contempo generalizzarla, mi sembra opportuno precisare che ciò che l’uomo vede quando guarda l’intricato filo, in ultima analisi è una sola cosa: la Morte. Che è, da che mondo e mondo, l’unico esito certo della storia nella Storia, l’unica necessità. Ed è questo infatti il grande tema del SdA, che può essere considerato una splendida antologia di tentativi di venire a patti con la morte, di trovare il proprio spazio nel poco tempo che ci è concesso, ovvero nel pezzo di storia contingente che ci è capitato di abitare. Il secondo rischio, insomma, è quindi vedere nell’intricato filo degli eventi la drammatica assenza di senso, e cedervi.
E qui riprendo l’altro punto lasciato prima, quello dell’inseguimento di Aragorn. La lotta è, in fondo in fondo, sempre senza speranza, tanto quanto l’inseguimento di due hobbit in mano a una banda di Orchi. Ma, nel caso di Aragorn, cioè dopo aver ritrovato il proprio posto nella Storia, la lotta senza speranza è di nuovo (o finalmente) sensata. Questa triade, composta da hybris, disperazione e speranza, costituisce un nucleo concettuale con cui è possibile indagare l’etica nelle storie epiche, su cui dovremo tornare.
Mi sembra che questa lettura consenta di interpretare la frase, da sempre per me enigmatica, che Aragorn dice a Boromir al momento della sua morte: «Hai vinto. Pochi hanno conosciuto un simile trionfo». Non si tratta di irragionevole pietismo, che poco si confarebbe ai due personaggi, né di una assoluzione finale che salva dalla colpa, né di un elogio del suicidio eroico di Boromir: ma del riconoscimento che – nella situazione data – Boromir ha effettivamente ripreso il filo de, e seguito la, “sua vocazione nella trama”: nell’ultima scelta avuta a disposizione Boromir fa quello che “può” fare (non la sua vocazione tout court). Mi sembra cioè che anche il “coraggio nordico” possa essere inserito in una relazione a tre: non solo l’individuo e la sua morte, ma l’individuo, le circostanze e il suo decesso, che a quel punto può essere guardato con spavalderia perché è la cosa da fare. In questo senso, anche lo spirito del ragnarok, la bellezza della lotta “nonostante la sconfitta”, non assume il colore di un coraggio fine a se stesso, non è l’esposizione del proprio sprezzo del destino, quanto la eroica accettazione che abbiamo fatto la nostra parte nelle fatalità, qualunque sia, che la Storia ci ha messo davanti.

Non importa se intendiamo queste potenze come una forza sovrannaturale, una forza sociale, o una natura beffarda, nell’Avventura il destino è sempre questo incontro profondamente personale tra il soggetto e la Storia che lo trascende, è questo lo spazio di riflessione che ci propone l’Avventura – un incontro che avviene in un progetto che è senza speranza, dove le potenze sono già più forti. Da qui il sentimento di compassione come cifra di una certa epicità di cui parlavo in apertura.
Se quanto detto finora è vero principalmente nell’universo di Arda, è anzi probabilmente parte dello specifico obiettivo di Tolkien e del suo contributo ad una “teoria del coaggio”, vorrei suggerire che una qualche affinità, al di là dei vari modelli eroici che ogni epica ha messo in campo, con questa compassione, effetto di un rapporto tra desideri personali, ballerino filo degli eventi e ineluttabilità finale, possa essere ritrovata in molte altre storie.

Mi viene in mente la Saga di Njall, in cui, se di primo acchito vediamo solo una seri di diatribe insensate, leggiamo il racconto della faticosa lotta degli uomini – in un universo mosso da un principio compensativo – per tenere in equilibrio la sorti della comunità (ovvero, mantenere una vita dotata di senso) nell’intreccio di forze contrastanti – i vari obiettivi individuali – che ci sovrastano e che conducono verso la rovina.
E la forza della Saga di Oddr l’Arciere non sta proprio dalla tensione tra le ripetute manifestazioni di potenza dell’eroe e l’ineluttabilità della predizione iniziale? Proprio perché l’intento di Oddr è quello di riconoscere come unica potenza la sua vocazione – fare il suo destino da sé, fino a colpire la veggente che predice la sua morte – le sconfitte e l’episodio finale rendono Oddr così umano da commuoverci.
In entrambi i casi mi sembra che variazioni sul tema del destino come spazio aperto, così come abbiamo cercato di renderlo qua, siano causa dei sentimenti che pervadono i testi e contribuiscano all’ “effetto epico” che li pervade.

Per cambiare completamente area, vorrei illustrare un ultimo punto sulla compassione con l’aiuto di Kenshiro. Quello che consente di rendere non meramente ripetitivo il praticamente maniacale tema dello scontro con tizi sempre più forti (come altre volte accade), né patetico buonismo il fatto che Ken possa “perdonare” ogni nemico, è proprio il rapporto che, nel manga/anime, questi personaggi hanno col destino. Non diversamente che in Tolkien, ogni avversario di Ken non accetta il suo destino: penso ai sentimenti di Yuda per Rey, ma anche a Raoul per Ken e per Ken e Julia. Hybris significa quindi non riuscire ad accettare ciò in cui siamo posti, la nostra eredità, ed è questa incapacità che fornire i motivi ai nemici di Ken. Ed è la compassione per questi uomini di fronte a questo destino molto più grande che li rende salvabili (ovviamente solo dopo una decisiva raffica di cazzotti): questo sentimento di uomini individuali che si muovono nella Storia li rende appunto personaggi tragici, invece che gli emeriti bastardi che sono. È questa grandezza della trama (con le sue avversità) a rendere molto “più epico” Hokuto no Ken rispetto ad altri shonen.

Gandalf (1)
Gandalf. Pronunciare parole di speranza

Ci sono, in sintesi, due conclusioni che vorrei trarre da queste considerazioni piuttosto generali. La prima è che forse, ogni volta con sfumature differenti, con forme e sensibilità variabili in ogni periodo storico-sociale, esiste, quantomeno per il lettore contemporaneo, un nucleo compassionevole dell’epica, data proprio dal modo di strutturare il rapporto tra individuo, vastità del mondo e la contingenza dei processi storici. Una compassione che ci spinge ad un rapporto attivo col mondo. E da qui la seconda riflessione: di questo rapporto che abbiamo indagato ricorrendo all’idea di destino, non è importante tanto mettere in mostra una determinata configurazione, quanto segnalare l’apertura che offre per uno spazio di riflessione etica. È vedendo questo spazio che, anche la centesima volta, siamo rapiti dalla lotta di un uomo col drago. Il tratto etico dell’epica non sta nella proposizione di modelli di individui eccezionali, nella manifestazione di un coraggio sopra le righe, nell’esaltazione di determinate doti, si trova piuttosto nel confronto individuale con l’assenza di speranza. Da Ettore a Frodo, le storie epiche ci mettono di fronte a questa azione mossa da speranza in una situazione senza speranza. Ed è solo «la speranza di uno sciocco, come è stato detto», che poi è la condizione umana.


[1] Come sanno gli appassionati, Ketill Salmone di Hrafnista era infatti figlio di Halfdan Mezzotroll e a sua volta aveva sposato una figlia del re dei Lapponi mezza gigante: l’essere figlio degli abitanti di Hrafnista, segna la possibilità che quell’uomo abbia le caratteristiche e l’indole per fare qualcosa di straordinario, ma al contempo di essere, come spesso capita agli eroi, ai margini del consesso sociale, per via degli effetti mostruosi di queste origini.

[2] Così anche per gli Elfi dell’Eregion- tra cui Galadriel – che accettano di costruire gli Anelli. Questo mi sembra aggiunga un movente in più alla scena della prova di Galadriel con l’Anello. Inoltre, mi viene fatto notare da Eodardo Rialti che la differenza di rapporto con la Storia dei personaggi, tra quanto si è disposti a mettersi in gioco con il filo degli eventi, può essere rinvenuto anche nel fatto che, nel SdA, i “cattivi” restano sempre immobili, mentre i “buoni” si muovono.


Vincenzo Marasco vive a Firenze, dove è nato. È appassionato di epica, miti, saghe, ma nel Mondo Primario si occupa di sociologia.


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